Per la Cassazione il lavoro familiare è lecito


L’ultima decisione della Suprema Corte rende consolidato l’orientamento che vuole lecito il lavoro familiare, una realtà molto viva nel tessuto economico del nostro Paese, e dà torto alle operazioni presuntive spesso contenute nei verbali ispettivi Inps

L'ultima decisione della Suprema Corte rende consolidato l'orientamento che vuole lecito il lavoro familiare, una realtà molto viva nel tessuto economico del nostro Paese, e dà torto alle operazioni presuntive spesso contenute nei verbali ispettivi Inps

Fa chiarezza la Corte di Cassazione sul lavoro familiare, rasserenando particolarmente piccoli imprenditori e artigiani. Con l’ultima decisione in materia (Sez. Lav., 27 febbraio 2018, n. 4535) la Suprema Corte rende quanto mai costante e consolidato l’orientamento che vuole lecito il lavoro tra familiari, realtà molto viva nel nostro tessuto economico e che mira a dare continuità alla gestione delle aziende nonché al tramandarsi dei mestieri.

È quanto spiega in un approfondimento la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro che analizza le motivazioni della sentenza n. 4535 e, in particolare, gli indici oggettivi stilati dalla Suprema Corte per riconoscere un effettivo inserimento organizzativo e gerarchico aziendale.

Il motivo per cui si è giunti a questo consolidato orientamento è la presa di posizione dell’Inps che, lungi dall’aderire agli arresti più volte confermati dalla Corte di Cassazione, continua a considerare il lavoro familiare quale strumento di dissimulazione per garantire una mera prestazione pensionistica.

E ciò viene concretizzato in fase ispettiva con la costante tendenza a disconoscere il rapporto di lavoro tra familiari, pur in assenza di una norma che vieti esplicitamente al datore di lavoro di assumere un proprio familiare. Addirittura, gli ispettori Inps annullano il rapporto di lavoro anche quando il datore di lavoro è una società, in virtù di una circolare (n. 179/89) che appare più come un pretesto che come una motivazione.

Non a caso l’Istituto basa tutto sulla presunzione di gratuità per motivi familiari e affettivi, presunzione di dubbia attualità e certamente non assoluta. La regola prevista dal nostro ordinamento giuridico, infatti, prevede l’onerosità della prestazione e non la gratuità. E spetta agli Ispettori dimostrare che il rapporto di lavoro tra familiari non esiste o è svolto a titolo gratuito ovvero che il datore di lavoro non esercita i suoi poteri nei confronti del dipendente-familiare. Dunque, una presunzione di inesistenza del rapporto anacronistica e che finora ha fatto scaturire un fiorente contenzioso, che porta poi a decisioni della Suprema Corte come quella in commento.

Va sottolineato, peraltro, che il Ministero del Lavoro prima e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ora hanno espresso posizioni non in linea con l’Istituto previdenziale (circolare M.L. n. 10478 del 2013).

La decisione della Cassazione sul lavoro familiare

La Corte di Cassazione, dunque, ritorna ad affrontare l’annosa questione della qualificazione del rapporto di lavoro tra familiari, dando nuovamente torto alle operazioni presuntive spesso contenute nei verbali ispettivi dell’Inps, che tendono a negare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, privilegiando, non sempre con fondamento, la prevalenza del legame familiare. Secondo un consolidato orientamento, invece, in presenza di indici oggettivi che consentono di riconoscere un effettivo inserimento organizzativo e gerarchico nella organizzazione aziendale nulla osta alla possibilità di riconoscere piena legittimità al rapporto di lavoro subordinato anche tra familiari. Anche parenti strettissimi, purché, come ha confermato la Corte di Cassazione con il provvedimento premesso, risulti:

  • l’onerosità della prestazione;
  • la presenza costante presso il luogo di lavoro previsto dal contratto;
  • l’osservanza di un orario (nella fattispecie coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività commerciale);
  • il “programmatico valersi da parte del titolare della prestazione lavorativa” (del familiare);
  • la corresponsione di un compenso a cadenze fisse.

Ciò perché dalla predetta sussistenza può oggettivamente desumersi “piuttosto che una partecipazione all’attività dettata da motivi di assistenza familiare legati alla condizione personale […] una tipologia di relazione maggiormente compatibile con la logica del corrispettivo della prestazione, piuttosto che con la destinazione alla copertura di contingenti e dunque variabili esigenze di vita, riconducibili alla nozione elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte di elemento sintomatico della subordinazione e come tali idonee ad offrire fondamento probatorio alla domanda dell’attore”. Ergo, il riconoscimento della genuinità del rapporto di lavoro e la natura subordinata, anche tra familiari, prestato in forza di un vincolo contrattuale e non soltanto benevolentiae vel affectionis causa.

Come premesso, la decisione in discorso si colloca nel solco di un orientamento consolidato della giurisprudenza, per il quale la sussistenza di un vincolo familiare può (e non deve necessariamente) costituire una ragione per respingere la qualificazione della natura subordinata del rapporto di lavoro, intrattenuto tra le parti, quale alternativa alla ordinaria presunzione di onerosità del rapporto di lavoro subordinato. Tale presunzione di gratuità (del lavoro familiare) può essere superata “fornendo la prova dell’esistenza del vincolo di subordinazione apprezzabile in riferimento alla qualità e quantità delle prestazioni svolte ed alla presenza di direttive, controlli ed indicazioni da parte del datore di lavoro” (Cass. Civ. Sez. Lav., n. 12433/2015, ex multis), “non potendosi escludere che le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale deve essere fornita la prova” (Cass. Civ. Sez. Lav., n. 5632/2006).