Quel pianeta proibito chiamato Alzheimer


A che punto è la ricerca sui farmaci? Perché tanti insuccessi? Si può imparare dalle altre malattie? In vista del Congresso nazionale sui Centri Diurni Alzheimer il farmacologo Giancarlo Pepeu spiega le difficoltà, ma anche perché occorre essere ottimisti

Il pianeta proibito chiamato Alzheimer. Alla vigilia del congresso nazionale sui Centri Diurni un grande farmacologo spiega i problemi della ricerca ma anche perché occorre ottimismo

Il pianeta demenze resta per ora un pianeta proibito. La popolazione invecchia e si ammala, i costi umani e sociali crescono a dismisura, eppure la scienza fatica a trovare rimedi per quanto in tutto il mondo si investa e si sperimentino nuovi farmaci. E appunto uno dei più noti farmacologi, Giancarlo Pepeu, emerito dell’Università di Firenze, anticipa i temi cardine del 9° congresso sui Centri Diurni Alzheimer (Montecatini, 17-18 maggio). Ecco come spiega progressi e difficoltà della ricerca.

Professor Pepeu, la recente notizia che alcuni colossi del farmaco rinunciano alla ricerca sembra aver creato un clima di sfiducia. Secondo lei perché è così complicato trovare una cura?

Mi si lasci dire una banalità: il cervello è il nostro organo più complicato. Lo studiamo da non molto e tanti meccanismi per ora ci sfuggono. La ricerca ha sì fatto passi da gigante, ma evidentemente le ipotesi sull’origine delle malattie neurodegenerative si sono rivelate fin qui inesatte o incomplete. Per dire: pensiamo che la proteina β-amiloide sia una delle cause dell’Alzheimer, ma non si sa perché si forma, né come si deposita sui neuroni. Si sa solo che li uccide. I test clinici sui farmaci per bloccarla hanno fatto fiasco perché mancano le conoscenze per sviluppare rimedi efficaci. Ma la ricerca continua soprattutto nelle università e nelle società biotech. Se alcune aziende abbandonano, so di altre che entrano in partita.

Spesso si sente confrontare i successi degli studi sul cancro con le delusioni di quelli sull’Alzheimer. Esiste davvero una differenza oppure è solo apparenza?

Sono paragoni senza troppo senso. La differenza c’è, ma dipende dal fatto che le ricerche sul cancro sono iniziate 60 anni fa con investimenti enormi, mentre quelle sull’Alzheimer hanno appena un ventennio e solo ora, con l’invecchiamento della popolazione, ci si rende conto della portata del problema. Per il cancro sono stati sviluppati farmaci mirati molto efficaci e tante sue forme, per esempio del seno, hanno elevate percentuali di guarigioni. Invece Alzheimer, Parkinson e altre demenze per ora sono senza cure.

Tutti sanno che esistono tanti diversi tipi di cancro, mentre di Alzheimer e demenze si continua a parlare al singolare, come se fosse un’unica malattia uguale per tutti, curabile con un unico farmaco. Distinguere, anche in questo caso, non aiuterebbe l’opinione pubblica a capire meglio?

Distinguere aiuterebbe sicuramente la comprensione, perché in effetti i tipi di demenza sono diversi: c’è la vascolare, la fronto-temporale, quella con Corpi di Lewy, eccetera. Però l’Alzheimer è sostanzialmente uno solo, con varie forme, ma sintomi identici. C’è quello familiare, ereditario, raro, a inizio precoce, di cui conosciamo i geni che lo causano. E c’è quello più tardivo, detto ‘sporadico’, il più diffuso, di cui è nota la costellazione genetica all’origine. Negli anziani esiste anche l’MCI (mild cognitive impairment), un danno cognitivo lieve, che spesso evolve in Alzheimer. Tutte queste forme di neurodegenerazione complicano la ricerca e penso che potremo fare progressi nelle terapie solo quando ne avremo una mappa completa.

Ormai si è anche capito che l’Alzheimer ha una lunga incubazione silente, perfino vent’anni e più. Una bella complicazione. Come si potrebbe diagnosticare la malattia proprio all’inizio?

Questa scoperta implica intanto che oggi curiamo persone già malate da tempo. Intervenire precocemente sarebbe utile, se ci fossero rimedi. In proposito una sperimentazione clinica con un farmaco contro la β-amiloide è ancora in corso in una comunità del Sud America con elevata incidenza di Alzheimer familiare. Si spera che riduca il numero di soggetti destinati in futuro a sviluppare la demenza. Quanto alla diagnosi precoce si può fare misurando nel liquido cerebro-spinale i livelli di β-amiloide e proteina tau.

Alcuni specialisti sostengono che la ricerca sulla neuro-degenerazione può avvalersi dei progressi di altri settori come la sclerosi multipla o il cancro stesso. Lei che cosa ne pensa?

Non sono al corrente di punti di contatto fra ricerca sui tumori e demenza, ma gli studi di base possono avere ricadute imprevedibili. Esistono comunque analogie fra le malattie neurodegenerative, pur nelle differenze. Per esempio, tutte inducono neuro-infiammazione e molte, come dicevo, presentano formazione e deposito nel cervello di proteine anomale: la β-amiloide e la tau nell’Alzheimer, la tau nella demenza frontoparietale, la sinucleina nel Parkinson per fare alcuni esempi. Pertanto la ricerca su queste malattie è molto integrata. Direi che è bene essere ottimisti: prima o poi la scienza vincerà anche l’Alzheimer.