Morto a Parma Totò Riina, Capo dei Capi della mafia siciliana


Il decesso del boss dei Corleonesi, arrestato nel 1993 e da 24 anni in regime di 41 bis, alle 3:37

totò riina moorto nel carcere di parma a 87 anni
Il Capo dei Capi, arrestato il 15 Gennaio del 1993, era in regime di 41 bis da 24 anni e stava scontando 26 condanne all’ergastolo per omicidi e stragi

ROMA – Totò Riina, il più sanguinario boss della mafia siciliana e Capo dei capi di Cosa Nostra dal 1982, è morto alle 3:37 del 17 Novembre nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Riina, che aveva compiuto proprio ieri 87 anni, era stato operato due volte nel corso delle ultime settimane ed era in coma farmacologico.

Sempre nella giornata di ieri il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, presentando l’evento conclusivo degli “Stati Generali della lotta alle mafie”, che si svolgerà il 23 e 24 novembre al Palazzo Reale di Milano, alla presenza del Presidente della Repubblica, aveva permesso ai familiari di raggiungere Riina a Parma.

Il Capo dei Capi, arrestato il 15 Gennaio del 1993, era in regime di 41 bis da 24 anni e stava scontando 26 condanne all’ergastolo per omicidi e stragi, tra cui quella di viale Lazio del 1969, quelle di Capaci e Via d’Amelio nelle quali morirono i giudici Falcone e Borsellino e quelle del 1993.

La storia criminale di Totò Riina

Salvatore Riina detto Totò, nasce a Corleone il 16 novembre 1930. Cresce in una famiglia di contadini e a soli 10 anni perde il padre e il fratello maggiore per l’esplosione di una bomba, residuato bellico, ed inizia a gestire gli affari di famiglia.

Conosce Bernardo Provenzano, detto “Zu Binnu”, e, insieme a lui, entra a far parte della cosca di Luciano Liggio, protetto del boss di Corleone Michele Navarra.

Come ricostruisce l’agenzia Dire (www.dire.it) i primi guai con la giustizia arrivano presto, a soli 19 anni, quando viene condannato a sei anni per l’uccisione di un coetaneo. La condanna viene scontata solo parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, l’ “università della mafia” a Palermo. Di nuovo libero, Totò Riina riprende la sua attività e insieme a Liggio inizia una guerra mafiosa contro il loro capo Michele Navarra.

Nel 1963 viene di nuovo arrestato, ma dichiarato innocente per assenza di prove, nel 1969, a seguito di due processi a suo carico, torna libero. Gli viene però applicata una misura di soggiorno obbligato, che non sconterà mai: inizia ora la sua latitanza, che durerà 24 anni. Sempre nel 1969 partecipa all’omicidio del boss Michele Cavataio prendendo parte alla cosiddetta “strage di Viale Lazio”. Il potere è ora nelle mani di tre famiglie, quelle dei boss Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio: nasce il “triumvirato”. Liggio però viene presto sostituito da Riina che, dopo il suo arresto, diventa ufficialmente il reggente della cosca di Corleone.

Gli omicidi e gli intrecci con la politica

Seguono anni segnati da omicidi, traffico illegale di stupefacenti, appalti truccati, il tutto condito da uno stretto legame tra mafia e politica che trova in Totò Riina il principale referente del democristiano Vito Ciancimino. Per preservare gli interessi di quest’ultimo, il capo di Cosa Nostra proporrà l’eliminazione dei suoi principali rivali politici, tra cui Michele Reina, Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, e Pio La Torre.

Soprannominato “La Bestia” per la sua ferocia, Totò Riina stringe anche legami con Salvo Lima, sperando che quest’ultimo interceda per lui presso il suo capocorrente Giulio Andreotti, affinché modifichi in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che lo vedeva condannato all’ergastolo insieme a molti altri capi mafiosi.

Il maxi processo e le stragi di mafia

Il 30 gennaio 1992 la Cassazione conferma la sentenza e qualche mese dopo Lima viene assassinato. Seguono le ritorsioni contro i collaboratori di giustizia, a partire da Tommaso Buscetta, i cui familiari fino al 20° grado di parentela devono essere uccisi. A cui si aggiungono gli omicidi di coloro che si sono adoperati in qugli anni per estirpare la piaga del crimine organizzato, primo tra tutti il magistrato antimafia Giovanni Falcone, che il 23 maggio 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta viene eliminato con centinaia di chili di tritolo in quella che verrà ricordata come la strage di Capaci. Seguirà la strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, a Palermo, nella quale moriranno il magistrato italiano Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta.

Il papello e la trattativa Stato-mafia

Per mettere la parola fine al susseguirsi di questi atti criminosi tra giugno e ottobre del 1992 prende il via una trattativa tra uomini dello Stato e Cosa Nostra, tutt’ora oggetto di processo. L’esistenza di un accordo, che prende il nome di Papello, è stata però confermata il 12 marzo del 2012 a Firenze durante il processo per la Strage di Via dei Georgofili. I giudici della Corte d’Assise di Firenze hanno dichiarato che la trattativa “ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des […]”. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia. Totò Riina avrebbe stilato una lista di richieste (in siciliano papello appunto) affinché le stragi terminassero, tra cui l’alleggerimento delle pene per i detenuti condannati durante il maxiprocesso.

L’arresto del Capo dei Capi e il 41 bis

Il 15 gennaio 1993 davanti alla sua villa di via Bernini Totò Riina viene arrestato dalla squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo, grazie alle dichiarazioni del pentito Baldassare (Balduccio) Di Maggio. Da allora a Riina è sempre stato riservato il trattamento del 41 bis, dapprima presso il carcere dell’Asinara, poi al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli. Nel 2001 al boss viene revocato l’isolamento. Nei successivi anni di detenzione Riina è stato più volte ricoverato a causa di problemi cardiaci.

Lo scorso 5 giugno la Cassazione ha accolto per la prima volta il ricorso del difensore di Totò Riina, che, a causa delle precarie condizioni di salute del suo assistito, ha chiesto il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare. La richiesta ha suscitato diverse polemiche ma la Corte di Cassazione ha difeso la propria decisione ribadendo che il “diritto a morire dignitosamente” va assicurato ad ogni detenuto. Il tribunale di sorveglianza di Bologna si è però opposto alle richieste del legale di Riina, disponendo che il detenuto restasse al 41 bis nel reparto riservato ai carcerati dell’ospedale di Parma, in quanto lì, hanno dichiarato i giudici, ha ricevuto “terapie di altissimo livello”.