Nikolajewka, 74 anni fa il sacrificio e l’eroismo degli Alpini


Il 26 Gennaio del 1943 la sanguinosa battaglia sul fronte russo

La battaglia di Nikolajewka fu decisiva per la ritirata dei soldati italiani sul fronte russo

ROMA – La battaglia di Nikolajewka del 26 Gennaio 1943 fu l’evento simbolo della ritirata italiana in Russia, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ma fu anche l’esempio del coraggio, dello spirito di sacrificio e dell’alto senso del dovere degli Alpini. Tanto che, 74 anni dopo, la battaglia di Nikolajewka viene ancora ricordata come l’atto di eroismo più significativo dei nostri militari sul fronte russo.

Dopo quel giorno, nel quale persero la vita migliaia di soldati italiani, per molti caduti prigionieri iniziò il calvario nei lager sovietici. In pochi, invece, riuscirono a fare ritorno a casa.

Il fronte russo nel 1942

Dall’autunno 1942 il Corpo d’Armata Alpino, costituito dalle tre Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, era schierato sul fronte del fiume Don. Ad affiancarlo c’erano Divisioni di fanteria italiane, reparti tedeschi e degli altri alleati, rumeni e ungheresi.

Il 15 dicembre 1942, con un potenziale d’urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni, i russi dilagarono nelle retrovie. Le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca, schierate più ad Est, furono accerchiate e costrette a sganciarsi dalle posizioni sul Don.

Iniziò così la terribile ritirata, con almeno 55mila soldati italiani morti o fatti prigionieri.

Dei 220mila militari italiani sul fronte russo tornarono a casa meno della metà

L’accerchiamento del Corpo d’Armata Alpino

Mentre le Divisioni della fanteria si stavano ritirando, il Corpo d’Armata Alpino ricevette l’ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta accerchiato.

Il 13 gennaio 1943 partì la terza offensiva sovietica. Il fronte tenuto dagli Alpini riuscì a resistere. Quello degli ungheresi a Nord e dei tedeschi a Sud fu spezzato in poche ore.

Il Corpo d’Armata Alpino era racchiuso, ora, in una vasta e profonda sacca e rimaneva un’unica alternativa: il ripiegamento immediato.

Nella tarda serata del 17 gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino. Ma solo la Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali.

La marcia verso la salvezza, di 15 giorni e per 200 chilometri, dei 40mila del Corpo d’Armata Alpino fu drammatica. Ma fu anche segnata da innumerevoli episodi di valore per contrastare ogni attacco russo.

La battaglia di Nikolajewka

Dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, la mattina del 26 gennaio 1943 gli Alpini della Tridentina giunsero davanti a Nikolajewka. Dietro a loro una colonna di 40.000 uomini, quasi tutti disarmati e in parte congelati.

Gli Alpini del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di fucile e bombe a mano il paese.

Fu un’impresa, in quelle condizioni. I russi infatti avevano schierata un’intera divisione dislocata in punti strategici. Si erano trincerati fra le case del paese protetti da un terrapieno della ferrovia che correva attorno all’abitato.

L’attacco italiano partì alle 9:30. I primi a lanciare l’assalto furono gli Alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II° Battaglione misto genio della Tridentina. Ad appoggiarli c’era solo il fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e tre semoventi tedeschi.

La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta. In più punti gli alpini riuscirono a salire contro la scarpata e a raggiungere alcune isbe in cui posizionare le mitragliatrici.

Riuscirono anche a conquistare la stazione ferroviaria ma la reazione russa fu violentissima. Gli Alpini furono costretti ad arretrare e ad attendere rinforzi.

Tre ore dopo l’assalto, verso mezzogiorno, arrivarono i resti del battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val Camonica. Nel cuore della battaglia di Nikolajewka entrarono anche alcuni reparti della Julia col Battaglione L’Aquila.

L’attacco italiano a Nikolajewka partì la mattina del 26 Gennaio 1943

“Tridentina Avanti!”

Dopo ore di sanguinosi combattimenti, la neve era tinta di rosso: su di essa giacevano senza vita migliaia di Alpini. Arrivare alla notte, quando le temperature sarebbero scese fino a 35 gradi sottozero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.

Quando il sole stava ormai per calare, però, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, salì su un semovente tedesco. Al grido di “Tridentina avanti!” trascinò i suoi Alpini all’assalto.

Il grido rimbalzò nelle retrovie e scosse la massa enorme degli sbandati. Gli italiani si lanciarono urlando verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia.

La superarono, travolgendo la linea di resistenza dei russi che, sorpresi dalla rapidità dell’azione, ripiegarono abbandonando armi e materiali. Il prezzo pagato dagli Alpini a Nikolajewka fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti.

L’ultima marcia verso la salvezza

Dopo Nikolajewka la marcia proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove i soldati italiani giunsero il 30 Gennaio. Qui furono finalmente in salvo. Il giorno successivo, con il passaggio delle consegne ai tedeschi, terminò ogni attività operativa sul fronte russo.

Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata. I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali. A Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.

La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2 febbraio e giunse a Gomel il 1° Marzo. In tutto gli Alpini percorsero a piedi 700 chilometri. Dal 6 al 15 Marzo 1943 partirono da Gomel le tradotte che avrebbero riportato in Italia i superstiti del Corpo d’Armata Alpino.

Mentre meno di due anni prima per il trasporto in Russia erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17.

Molti dei prigionieri furono trasferiti in Siberia

Il destino dei prigionieri

A raccontare alcuni episodi ancora poco conosciuti successivi alla battaglia di Nikolajewka è lo storico Vincenzo Di Michele.

«Per gli italiani che furono fatti prigionieri fu l’inizio di una vera odissea tra fame, malattie e sofferenze di ogni genere. Si riscontrarono persino episodi di cannibalismo» racconta Di Michele nel libro “Io Prigioniero in Russia”.

Nel volume è riportata la testimonianza scritta di un reduce “Alpino della divisione Julia”. Fu internato nel lager di Tambov e poi trasferito in Siberia e infine nei campi di cotone del Kazakistan. Fu uno dei pochi a tornare vivo in patria seppur invalido.

«Dopo la guerra furono vani i tentativi delle autorità italiane di avere notizie dei prigionieri. Le principali critiche si incentrarono su Palmiro Togliatti, membro importante dell’Internazionale Comunista» aggiunge Di Michele.

Solo dopo il 1989, con la caduta del comunismo, è iniziato il rimpatrio delle salme. Le ricerche dei tanti dispersi continuano però ancora oggi. Alcuni mesi fa è stata individuata una grande fossa comune a circa 800 chilometri a Nord di Mosca.

Si stima che il gigantesco cimitero nella steppa russa sia lungo cinquecento metri e largo un centinaio.