Speciale Olimpiadi: 3 storie sullo sport che combatte il razzismo


Jesse Owens, Muhammad Alì, Tommie Smith e John Carlos: atleti che alle Olimpiadi hanno sfidato un nemico più potente di qualunque avversario.

Tenacia, carattere, talento: sono queste le caratteristiche che aiutano uno sportivo a diventare campione. Con le Olimpiadi di Rio 2016 alle porte abbiamo deciso di cominciare a “riscaldare i muscoli” raccontando le storie che hanno reso questo evento così spettacolare. Sono storie di tenacia (vedi articolo), carattere e talento. Sono storie di uomini, prima che di atleti.

In questa seconda puntata parleremo di carattere, di ciò che rende un atleta unico e gli conferisce il lasciapassare per la storia. In questo articolo non parleremo solo di imprese sportive, ma racconteremo la storia di Jesse Owens, Muhammad Alì, Tommie Smith e John Carlos, uomini che hanno sfidato un nemico più potente di qualunque avversario.

1. Jesse Owens: alle Olimpiadi di Berlino del 1936 batte tutti ma non il razzismo

Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino del 1936
Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino del 1936

Atto primo: nelle foreste della Germania

Questa storia inizia nella Foresta Nera della Germania. È il 1936. Hitler è al potere da tre anni e la sua politica aggressiva ha già messo in allarme i governi di mezzo mondo. In questa foresta c’è un gruppo di atleti biondissimi, con gli occhi azzurri, esemplari perfetti di quella che il Führer definisce “razza ariana”.

Si allenano nel bosco, a petto nudo mentre c’è un freddo micidiale. Si allenano nel fango, per temprare il proprio fisico ed essere pronti a qualsiasi sfida. Sono i più forti di tutti, ne sono convinti. Attendono con ansia le Olimpiadi di Berlino per dimostrare di fronte al proprio pubblico e al resto del mondo la loro evidente superiorità.

Le Olimpiadi di Berlino del 1936 dovevano mostrare al mondo la superiorità della "razza ariana"
Le Olimpiadi di Berlino del 1936 dovevano mostrare al mondo la superiorità della “razza ariana”

Atto secondo: le Olimpiadi del 1936.

Ai nastri di partenza, tra gli atleti di tutto il mondo si presenta anche un ragazzo afroamericano, poverissimo, che viene dall’Alabama: il suo nome è Jesse Owens e suo nonno, nella civilissima America, era morto da schiavo. La leggenda vuole che Owens abbia scelto di praticare l’atletica solo perché non aveva soldi per comprare le attrezzature riservate ad altri sport.

È così che si presenta a Berlino: povero ma ricco di talento. Un anno prima, nel 1935 a Ann Arbor, in un solo pomeriggio eguaglia o supera ben sei record mondiali tra gare di corsa e salto in lungo.

A Berlino però Owens riesce a fare di meglio: in una sola Olimpiade conquista ben quattro medaglie d’oro, record eguagliato solo da Carl Lewis nel 1984. Un’impresa che va ben al di là del suo valore sportivo: Owens, in pochi giorni di gara ha dimostrato che non esistono razze superiori, ma solo atleti ben allenati e con fame di vittoria. I tedeschi devono accontentarsi delle briciole.

Atto terzo: Il ritorno in patria di Jessie Owens.

I quotidiani americani scrissero che Hitler andò via dallo stadio indispettito, rifiutando di salutare l’atleta, ma lo stesso Owens racconta nella sua biografia che il Führer prima di lasciare l’impianto gli fece un cenno di saluto, riconoscendone il talento.

Ciò che è certo è che al ritorno in patria Owens è accolto come un eroe ma al ricevimento per gli atleti vittoriosi è costretto a prendere l’ascensore di servizio, perché, nonostante sia un eroe, è pur sempre un “negro”. Il presidente Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale disdice l’appuntamento con il campione per paura di inimicarsi il voto degli abitanti degli stati del sud.

Owens scriverà nella sua biografia. “Che strano! Hitler mi ha salutato e Roosevelt no.

2. Il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968

Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968
Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968

Ci sono immagini che restano impresse nella storia dello sport. Una di queste è quella dei due atleti americani Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968.

Cosa significano quei pugni chiusi alzati al cielo e coperti da un guanto? E perché sono a piedi nudi e a testa bassa?

Il motivo è chiaro: Tommie e John non sono solo uomini di sport ma sono uomini che hanno a cuore la condizione degli afroamericani in un periodo “caldo” che è già costato la vita a Malcom X, Martin Luther King e Bob Kennedy.

È un periodo difficile per la gente di colore negli Stati Uniti. In America in quegli anni si combatte una lotta impari, tra chi ha mezzi e potere e chi invece ha dalla sua solo il coraggio e la voglia di riscatto. I pugni chiusi sono il simbolo del “black power”, dell’orgoglioso “potere nero”. I piedi scalzi simboleggiano la povertà del popolo afroamericano, la testa china è per ricordare i “fratelli” morti mentre lottavano per i propri diritti.

3. La medaglia di Muhammad Alì alle Olimpiadi di Roma del 1960 

Kassius Klay sul gradino più alto del podio alle Olimpiadi di Roma
Kassius Klay sul gradino più alto del podio alle Olimpiadi di Roma

È il 1960 e alle Olimpiadi di Roma un giovanissimo Muhammad Alì (all’epoca Kassius Klay) conquista la medaglia d’oro nel pugilato. Il giovane atleta è fiero di aver conquistato quella medaglia per il suo Paese, gli Stati Uniti.

Poche settimane dopo però, mentre si trova a Louisville, Alì prova ad entrare in un ristorante del luogo ma il proprietario lo manda via perché l’ingresso è “riservato ai bianchi” e nessuna medaglia potrà cancellare le origini dell’atleta.

La leggenda vuole che Alì a quel punto si sia strappato di dosso la medaglia d’oro appena conquistata per scagliarla nel fiume Ohio, dove ancora oggi riposa.

Da: www.dueminutidiarte.com

Marco Lovisco

Giornalista, consulente di marketing e scrittore.