La cardiomiopatia amiloide da transtiretina (ATTR-CM) è una malattia del cuore progressiva, causata dall’accumulo anomalo di una proteina che si deposita nei tessuti cardiaci compromettendone la struttura e la funzione
La cardiomiopatia amiloide da transtiretina (ATTR-CM) è una malattia del cuore progressiva, causata dall’accumulo anomalo di una proteina – la transtiretina – che si deposita nei tessuti cardiaci compromettendone la struttura e la funzione.
La patologia viene diagnosticata sempre più spesso in fase precoce, quando i pazienti non hanno ancora sviluppato segni e sintomi di scompenso cardiaco. Non è solo questione di “occhio clinico”: negli ultimi anni sono cambiate diagnosi, terapie e sensibilità dei cardiologi verso questa malattia un tempo ritenuta rara.
Tre fattori hanno fatto la differenza:
1. La diagnosi non invasiva
La disponibilità di un algoritmo diagnostico basato sulla scintigrafia ossea ed indagini ematologiche di laboratorio ha permesso di evitare la biopsia cardiaca, fino a pochi anni fa l’unico metodo definitivo per confermare la malattia. Questo ha reso la diagnosi più semplice, rapida e accessibile.
2. L’arrivo delle terapie disease-modifying
Dal 2019 sono disponibili i primi farmaci in grado di migliorare sopravvivenza, qualità di vita e capacità funzionale. La consapevolezza di poter trattare la malattia ha aumentato il sospetto clinico e la motivazione a diagnosticare precocemente.
3. Maggiore attenzione clinica e culturale alla malattia
La combinazione dei primi due fattori ha cambiato l’atteggiamento dei cardiologi, che oggi riconoscono più facilmente i segnali precoci di ATTR-CM. Un recente studio della Rete Italiana dell’Amiloidosi Cardiaca mostra che il 50% dei pazienti italiani riceve la diagnosi prima ancora che compaia lo scompenso cardiaco, una situazione non contemplata dalle attuali linee guida europee e statunitensi.
Un recente studio pubblicato su JAMA Cardiology porta però il discorso un passo oltre: mostra che, tra i pazienti asintomatici con infiltrazione ATTR al cuore, esistono due mondi diversi – e che in uno dei due la malattia è già molto avanzata, anche se il paziente non ha ancora difficolta nel respiro né edemi declivi.
Lo studio di JAMA Cardiology fotografa un “nuovo” paziente asintomatico
Uno studio internazionale, coordinato dall’Università di Trieste, in collaborazione con l’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina, e dal National Amyloidosis Centre di Londra, potrebbe rivoluzionare le prospettive del trattamento precoce dell’ATTR-CM,
La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista JAMA Cardiology e presentata al Congresso della Società Americana di Cardiologia (AHA), ha analizzato per la prima volta i pazienti con infiltrazione cardiaca di amiloide da ATTR, ma ancora privi di segni e sintomi di scompenso cardiaco. Usando una tecnica di imaging avanzata i ricercatori hanno dimostrato che i pazienti con forme moderate o gravi di infiltrazione cardiaca (grado 2 e 3 scintigrafico) hanno mostrato segni tipici di una cardiomiopatia amiloidotica, con anomalie evidenti sia nell’ecocardiogramma che nei biomarcatori sierici. La malattia è progredita più rapidamente in questi pazienti, con oltre il 50% che ha sviluppato segni e sintomi di scompenso cardiaco con necessità di terapia diuretica entro 3 anni dalla diagnosi.
Aldostefano Porcari, Dirigente Medico Cardiologo presso Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano-Isontina (AUSGI), con un Dottorato in Amiloidosi conseguito presso il National Amyloidosis Centre di Londra (University College London), in passato assegnista di ricerca all’Università di Trieste, e primo autore della pubblicazione, spiega «Le attuali linee guida europee e americane prevedono il trattamento con il farmaco tafamidis (l’unico farmaco approvato al momento della stesura delle Linee Guida NdR) solo per chi ha già sviluppato uno scompenso cardiaco conclamato. Tuttavia, il nostro studio suggerisce che anche i pazienti ancora asintomatici, ma con infiltrazione cardiaca avanzata, potrebbero beneficiare di un trattamento precoce, per rallentare o potenzialmente arrestare la progressione di malattia. Questo risultato apre la strada a una possibile revisione delle raccomandazioni terapeutiche, con l’obiettivo di intervenire prima della comparsa dei sintomi».
Lo studio internazionale ha raccolto i dati di 12 centri (tra cui 7 italiani) su pazienti con infiltrazione cardiaca amiloide da transtiretina documentata alla scintigrafia ossea, ma senza storia di scompenso cardiaco, senza diuretici in terapia e senza sintomi clinici di scompenso cardiaco al momento della diagnosi.
Dei 660 pazienti inizialmente identificati, sono stati esclusi quelli che nel follow-up avevano ricevuto farmaci disease-modifying o erano entrati in studi clinici, per evitare di introdurre bias nell’ analisi di sopravvivenza; l’analisi definitiva comprendeva un totale di 485 pazienti.
I ricercatori hanno separato i pazienti in base al grado di captazione cardiaca alla scintigrafia (score di Perugini):
• Perugini 1 → captazione cardiaca di grado lieve con normale captazione ossea;
• Perugini 2–3 → captazione cardiaca moderata/importante con attenuazione della captazione ossea, ovvero il gruppo che secondo gli algoritmi non invasivi raggiungerebbe i criteri per una diagnosi di ATTR-CM “a tutti gli effetti”.
L’età media dei due gruppi era sovrapponibile, ma il quadro cardiaco no: nei Perugini 2–3, già al baseline, cuore più ispessito, funzione sistolica e diastolica più compromesse, biomarcatori più elevati e maggiore uso di terapie per lo scompenso, pur in assenza di una storia clinica di scompenso cardiaco conclamata.
Il follow-up mediano è stato di 37 mesi (IQR 20–64). In questo periodo si sono verificati:
• 109 decessi (22,5%),
• 64 morti cardiovascolari (CV) (13,2%),
• 93 eventi di morte CV o ospedalizzazione per scompenso cardiaco (19,2%).
Perugini 2–3: rischio CV moltiplicato per cinque
Il dato forse più spiazzante è che la mortalità globale è risultata simile tra Perugini 1 e Perugini 2–3. Ma guardando come si muore, le differenze diventano nette:
• il rischio di morte cardiovascolare è circa 5 volte superiore nei pazienti con captazione 2–3 rispetto a quelli con grado 1 (HR non aggiustato 5,30; IC 95% 1,92–14,65; p < 0,001);
• il composito di morte CV o ospedalizzazione per scompenso è anch’esso ~5,8 volte più frequente (HR 5,80; IC 95% 2,10–16,03; p < 0,001);
• al contrario, nei Perugini 1 prevale una mortalità non cardiovascolare, con un rischio quasi doppio rispetto ai Perugini 2–3 (HR 0,46 per i 2–3 vs 1; IC 95% 0,25–0,85; p = 0,01).
Se si guarda alla progressione clinica a 3 anni, il quadro è altrettanto chiaro:
• sviluppo di scompenso cardiaco sintomatico nel 54,3% dei Perugini 2–3 vs 23,1% dei Perugini 1;
• inizio diuretico + progressione NT-proBNP nel 35,0% vs 12,4%;
• ospedalizzazioni per scompenso cardiaco 8,7% vs 0%;
• ospedalizzazioni CV non programmate 20,0% vs 4,3%.
In pratica, il Perugini 2–3 “asintomatico” fotografa una malattia cardiaca già strutturata e ad alto rischio di eventi nel giro di pochi anni, mentre il Perugini 1 sembra rappresentare uno stadio molto più precoce o un’infiltrazione minima, in cui la vita del paziente è più spesso messa in pericolo da cause non cardiache.
Cosa cambia nella pratica clinica: trattare prima i Perugini 2–3?
Le attuali linee guida europee e statunitensi raccomandano tafamidis nei pazienti con ATTR-CM (wild-type o variante) con scompenso cardiaco sintomatico. I principali trial clinici randomizzati su terapie disease-modifying in ATTR-CM hanno arruolato pazienti con scompenso cardiaco conclamato (pregresse ospedalizzaizoni per scompenso cardiaco, necessità di diuretico, incremento dei biomarcatori cardiaci). I pazienti asintomatici sono pertanto stati esclusi da questi studi, creando un campo di totale assenza di evidenze scientifiche per questo gruppo di pazienti, oggi sempre più frequenti in pratica clinica.
In questo solco si inserisce lo studio di JAMA Cardiology che suggerisce come aspettare il primo episodio di scompenso cardiaco per poter iniziare la terapia disease-modifying significa intervenire in una fase già avanzata di malattia, almeno per i Perugini 2–3:
• in questi pazienti, anche se oggi sono “clinicamente bene”, il rischio di scompenso, ospedalizzazioni e morte cardiovascolare è già elevato nel breve-medio termine;
• al contrario, nei Perugini 1 la malattia cardiaca pesa meno sulla prognosi globale, e i trial dovrebbero considerare end point diversi dalla mortalità, che è lontana nel tempo e spesso non cardiovascolare.
Non a caso gli autori concludono che i dati “supportano l’uso di trattamenti disease-modifying nei pazienti asintomatici con captazione di grado 2–3 e sottolineano la necessità di ampi studi dedicati per chiarire il ruolo della terapia nei pazienti con captazione di grado 1”.
Sul fronte della ricerca, un tassello importante arriverà dal trial ACT EARLY, che sta valutando l’uso “preventivo” dello stabilizzatore acoramidis in portatori asintomatici di varianti patogenetiche di TTR, per capire se si può bloccare la malattia prima che compaia una vera cardiomiopatia e/o neuropatia.
Messaggio per i clinici
Per i cardiologi che vedono questi pazienti sempre più spesso, il messaggio chiave è duplice:
• Non tutti gli asintomatici sono uguali: un Perugini 2–3 senza scompenso cardiaco oggi è, di fatto, un paziente ad alto rischio cardiovascolare nei prossimi 2–3 anni.
• Serve ripensare il timing della terapia: aspettare il primo scompenso cardiaco potrebbe voler dire arrivare tardi. I dati del mondo reale spingono a considerare i farmaci disease-modifying già nelle fasi pre-sintomatiche più avanzate, almeno per i gradi 2–3, mentre per i Perugini 1 la priorità sembra essere il follow-up strutturato e studi mirati con end point più adatti.
Questo studio rappresenta un punto di partenza fondamentale per le future ricerche sull’amiloidosi cardiaca. I risultati suggeriscono che, nelle fasi iniziali della malattia, i depositi di amiloide potrebbero legarsi in modo meno rigido alla matrice extracellulare del cuore, cioè alla rete di proteine che fornisce supporto strutturale ai tessuti cardiaci. Questo fenomeno potrebbe rendere i depositi amiloidotici più suscettibili a eventuali trattamenti.
Con lo sviluppo di nuove terapie mirate alla rimozione dell’amiloide, queste informazioni saranno preziose per migliorare l’efficacia delle cure, permettendo di intervenire in modo più mirato nelle prime fasi della malattia.
Il team di ricerca
Accanto ad Aldostefano Porcari che ha guidato lo studio dal National Amyloidosis Centre di Londra, hanno partecipato Il team dell’Università di Trieste e dell’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina guidato da Gianfranco Sinagra, docente del Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e della Salute dell’Università di Trieste e direttore del Dipartimento cardio-toraco-vascolare dell’Ospedale di Cattinara e da Valentina Allegro, specializzanda dell’ateneo giuliano.
Il dott. Porcari è stato invitato a presentare i risultai della ricerca nella sessione dedicata al prestigioso “Samuel A. Levine Early Career Clinical Investigator Award”, riconoscimento riservato ai giovani ricercatori che contribuiscono significativamente alla cardiologia clinica.
Lo studio in questo ambito proseguirà con il coinvolgimento nel team di ricercatori dell’Università di Trieste di Rossana Bussani, docente di Anatomia Patologica ed esperta nella valutazione istologica dei depositi di amiloide cardiaci ed extra-cardiaci, e di Gabriele Stocco, professore associato di Farmacologia, che ha promosso insieme a Gianfranco Sinagra l’acquisizione dello spettrometro di massa a Trieste per la caratterizzazione avanzata dei depositi di amiloide. Grazie a queste iniziative, l’ateneo triestino punta a delineare nuove strategie diagnostiche e terapeutiche, con l’obiettivo di intervenire sempre più precocemente e in modo mirato nella gestione dell’amiloidosi cardiaca.

