Psoriasi: controllo infiammazione profonda apre nuove prospettive di cura


Negli ultimi anni, la gestione della psoriasi ha vissuto una trasformazione radicale grazie all’introduzione di terapie biologiche sempre più mirate

psoriasi

Negli ultimi anni, la gestione della psoriasi ha vissuto una trasformazione radicale grazie all’introduzione di terapie biologiche sempre più mirate. Tra queste, bimekizumab si è distinto per la sua capacità di agire simultaneamente su due citochine chiave, le interleuchine (IL)-17A e -17F, offrendo un controllo dell’infiammazione più completo rispetto agli approcci precedenti, come spiegato in una relazione tenutasi al congresso 2025 della European Academy of Dermatology and Venereology (EADV).

Questa duplice inibizione non solo migliora la risposta clinica, ma apre la strada a una nuova visione terapeutica orientata alla modificazione della malattia, concetto che si fonda sulla possibilità di ottenere una remissione duratura, di intervenire sui meccanismi immunitari alla base della cronicità e di prevenire le comorbilità infiammatorie associate. Studi recenti dimostrano che un intervento precoce e mirato può modificare il decorso della psoriasi, migliorando la qualità di vita e riducendo il rischio di danni irreversibili.

La doppia inibizione di IL-17A e IL-17F migliora la gestione clinica della psoriasi
I farmaci biologici hanno profondamente trasformato la gestione della psoriasi, offrendo ai pazienti prospettive terapeutiche che fino a pochi anni fa sembravano irraggiungibili. Dopo l’introduzione degli inibitori del TNF-α come infliximab e adalimumab, seguita dall’approvazione di ustekinumab nel 2009, il panorama terapeutico si è arricchito con molecole sempre più mirate. Oggi sono disponibili inibitori dell’interleuchina (IL)-17A, del recettore IL-17, della IL-23, oltre a due piccole molecole orali, apremilast e deucravacitinib.

L’ultima innovazione è rappresentata da bimekizumab, un farmaco che si distingue per la sua capacità di inibire selettivamente sia IL-17A che IL-17F. Questo duplice meccanismo d’azione consente di agire su tre forme molecolari distinte: IL-17AF (eterodimero), IL-17AA e IL-17FF (omodimeri), segnando un’evoluzione rispetto agli inibitori che agiscono esclusivamente sulla IL-17A.

Studi recenti hanno evidenziato che bimekizumab è in grado di ridurre l’espressione genica pro-infiammatoria sia in vitro che nei pazienti affetti da psoriasi. Il ruolo della IL-17F si è rivelato particolarmente rilevante, poiché nella pelle lesionale psoriasica molte cellule producono esclusivamente questa citochina. Esistono sottotipi distinti di cellule TH17 che producono IL-17A, IL-17F o entrambe, e le analisi cinetiche indicano che la IL-17A è espressa inizialmente, ma col tempo la risposta si orienta verso una predominanza di IL-17F, che diventa così un attore chiave nella cascata infiammatoria.

«Bloccare solo la IL-23 non è sufficiente, poiché persiste una via infiammatoria indipendente che continua a produrre IL-17. Allo stesso modo, l’inibizione esclusiva della IL-17A, come avviene con secukinumab o ixekizumab, lascia attiva l’infiammazione mediata da IL-17F» ha spiegato Nina Magnolo del Münster University Hospital, in Germania. «È proprio il duplice blocco di IL-17A e IL-17F che consente un controllo più completo dell’infiammazione nei pazienti con psoriasi».

I dati clinici confermano questa visione. Gli studi head-to-head mostrano che bimekizumab raggiunge una risposta PASI 100 già alla settimana 16, con pelle completamente libera da lesioni, e dimostra una superiorità su tutti gli endpoint rispetto a ustekinumab, adalimumab e secukinumab. Ancora più rilevante è la sua efficacia nel lungo termine: in una patologia cronica come la psoriasi, il farmaco mantiene la risposta PASI 100 fino a quattro anni, garantendo continuità terapeutica e stabilità clinica.

A livello cellulare, l’inibizione combinata di IL-17A e IL-17F consente di agire sia sui linfociti adattativi che su quelli innati, assicurando un controllo profondo dell’infiammazione. Questo approccio terapeutico non solo migliora l’outcome clinico, ma può realmente modificare il decorso della malattia. Intervenire in modo tempestivo e mirato permette di prevenire danni irreversibili e l’insorgenza di comorbilità infiammatorie. Anche le linee guida più recenti sottolineano l’importanza di un controllo precoce e aggressivo dell’infiammazione sistemica, che si traduce in benefici clinici rapidi e duraturi per i pazienti.

In conclusione, i biologici di nuova generazione come bimekizumab aprono la strada a obiettivi terapeutici sempre più ambiziosi, come la risoluzione completa delle lesioni cutanee e il controllo dell’infiammazione. La profondità, la rapidità e la durabilità della risposta ottenuta con l’inibizione duale di IL-17A e IL-17F rappresentano un salto di qualità nella gestione della psoriasi. E il controllo precoce dell’infiammazione sistemica non solo migliora la qualità della vita, ma può prevenire danni irreversibili e ritardare l’insorgenza delle comorbilità infiammatorie.

Il controllo precoce dell’infiammazione può cambiare il decorso della psoriasi
La modificazione della malattia nella psoriasi si basa sull’idea di un miglioramento clinico sostenuto, che si traduce nel controllo della patologia anche in caso di interruzione del trattamento farmacologico, oppure in una regolazione efficace dell’infiammazione con parametri clinici come una BSA inferiore all’1% e un PGA pari a 0 o 1. Non significa necessariamente assenza totale di malattia, ma può indicare la capacità di prevenire comorbilità strettamente legate al processo infiammatorio.

Secondo un approccio integrato, questo concetto poggia su tre pilastri, ovvero la remissione a lungo termine, il reset immunitario e la prevenzione delle comorbilità. Alcuni dati mostrano che pazienti ben controllati possono sospendere la terapia mantenendo il beneficio clinico, sollevando la questione su quanto a lungo possa durare questo equilibrio. L’obiettivo resta una pelle priva di attività infiammatoria, mantenuta nel tempo senza farmaci.

Sul piano immunologico, alcune evidenze suggeriscono che sia possibile modulare l’attività di geni pro-infiammatori. Le cellule T residenti della memoria, pur non essendo le uniche coinvolte, giocano un ruolo centrale nella persistenza della malattia. Ridurne la presenza nei tessuti infiammati potrebbe favorire una gestione più stabile e duratura.

La prevenzione delle comorbilità, come artrite psoriasica, sindrome metabolica e disturbi dell’umore, è il terzo pilastro. Intervenire precocemente e in modo mirato può ridurre il rischio di complicanze e migliorare la qualità di vita.

Lo studio GUIDE ha evidenziato che la durata della malattia incide sulla risposta terapeutica. I pazienti con storia clinica di vent’anni hanno mostrato una ricaduta dopo 259 giorni dalla sospensione del trattamento, quelli con durata intermedia dopo circa 290 giorni, mentre i pazienti con malattia ultra-breve hanno mantenuto il controllo fino a 450 giorni. Questo suggerisce una finestra terapeutica ideale, compresa tra uno e un anno e mezzo, in cui l’intervento può avere effetti più duraturi.

Le cellule T residenti della memoria si accumulano nella pelle affetta o guarita, contribuendo alla diffusione della malattia. Lo stesso studio ha dimostrato che è possibile ridurre il loro numero durante il trattamento, raggiungendo livelli simili alla pelle non lesionale intorno alla settimana 68. I pazienti con malattia di durata ultra-breve mostrano una maggiore probabilità di risposta duratura, proprio grazie a una minore presenza di queste cellule.

Lo studio STEPIn, condotto con secukinumab, ha evidenziato che nei pazienti con esordio recente si ottiene un controllo dell’attività genica pro-infiammatoria già dopo 16 settimane, mantenuto fino alla settimana 52. Nei pazienti con malattia cronica, invece, persiste una “cicatrice genetica” che rende più difficile il controllo dell’infiammazione. Questo conferma che l’intervento precoce può avere effetti più profondi.

Anche lo studio BE READY ha fornito dati significativi. Dopo 16 settimane di trattamento con bimekizumab e successiva sospensione, alla settimana 65 circa il 20% dei pazienti presentava ancora un PASI inferiore a 3, e l’11% mostrava una malattia ben controllata. Esiste dunque un sottogruppo di pazienti che risponde in modo particolarmente efficace e mantiene la remissione anche dopo nove mesi senza terapia.

«La possibilità di misurare o prevedere la modificazione della malattia è un tema centrale. Alcuni tipi di cellule T producono entrambe le citochine IL-17A e IL-17F, altri solo una delle due, ma la maggior parte produce esclusivamente IL-17F» ha osservato il prof Andreas Pinter della Goethe University Frankfurt, in Germania. «Le differenze nell’espressione genica tra questi sottotipi sono minime, ma potrebbero fornire indicazioni utili per prevedere la risposta terapeutica».

Un ulteriore elemento di interesse è il recettore IL-7, più presente nelle cellule che producono IL-17F. Questo recettore, che agisce come fattore di sopravvivenza, è espresso sia sulle cellule T attive che su quelle residenti della memoria. Quando è attivo, genera una firma genica anti-apoptotica. Con bimekizumab è possibile ridurne l’attività, come dimostrato dopo 8 e 28 settimane di trattamento. Le cellule T, in presenza di una downregulation del recettore IL-7, entrano più facilmente in uno stato apoptotico, contribuendo al controllo dell’infiammazione.

«La firma TRM, che rappresenta l’attività delle cellule T residenti della memoria, è uno dei dati più significativi. Nella pelle sana e non lesionale si osservano piccole differenze, ma con bimekizumab è possibile riportare questa firma a livelli simili a quelli della pelle non lesionale» ha concluso. «Non si tratta di una cura definitiva, ma di un controllo efficace e stabile».

Il coinvolgimento ungueale nella psoriasi può anticipare il rischio articolare
L’infiammazione sistemica cronica rappresenta un fattore cruciale nella progressione della psoriasi e può contribuire in modo significativo allo sviluppo di comorbidità, tra cui l’artrite psoriasica. Diversi studi hanno cercato di identificare i principali fattori di rischio in grado di predire l’insorgenza dell’artrite, e tra questi il coinvolgimento ungueale e del cuoio capelluto è ormai ampiamente riconosciuto.

È stato osservato che una maggiore durata della psoriasi si associa a un incremento del rischio di alterazioni ungueali e di manifestazioni articolari, e che i pazienti con forme gravi di psoriasi presentano una probabilità più elevata di sviluppare artrite sin dalle prime manifestazioni cutanee. Alla luce di queste evidenze, la scelta terapeutica nei pazienti con psoriasi e rischio articolare dovrebbe orientarsi verso farmaci capaci di controllare in modo efficace l’infiammazione e di garantire una risoluzione duratura delle lesioni in aree particolarmente sensibili.

I dati clinici dimostrano che bimekizumab è in grado di mantenere la clearance in zone ad alto impatto, come le unghie e il cuoio capelluto, dal primo al quarto anno di trattamento. I pazienti che hanno raggiunto punteggi mNAPSI (Modified Nail Psoriasis Severity Index) pari a 0 (assenza di segni clinici di psoriasi ungueale) o punteggi Scalp IGA pari a 0 (assenza completa di segni clinici di psoriasi a livello del cuoio capelluto) conservano i risultati nel tempo, anche secondo analisi statistiche rigorose come l’imputazione dei non responder. Riguardo alla matrice e al letto ungueale, oltre l’80% dei pazienti ha mantenuto la risoluzione tra il primo e il terzo anno.

«Inoltre, il profilo di sicurezza del farmaco si conferma favorevole, con effetti collaterali generalmente lievi e una bassa incidenza di infezioni gravi, un dato particolarmente rilevante quando si intraprende una terapia cronica per una patologia persistente» ha sottolineato la prof Valentina Dini dell’Università di Pisa.

Nonostante il coinvolgimento ungueale sia considerato un indicatore di rischio per l’artrite psoriasica, manca ancora una dimostrazione oggettiva del legame diretto tra psoriasi ungueale e infiammazione articolare. L’apparato ungueale è tuttavia fisicamente connesso al sistema muscoloscheletrico, e l’entesi ungueale, cioè le fibre che collegano la lamina ungueale all’articolazione, potrebbe rappresentare il primo punto di insorgenza dell’artrite. Per una valutazione oggettiva e precoce di queste strutture, l’ecografia ad alta frequenza si rivela uno strumento prezioso, capace di rilevare alterazioni subcliniche sia nella struttura dell’unghia sia nel segnale Doppler.

Intervenire tempestivamente per controllare l’infiammazione può modificare il decorso della malattia e prevenire la sua progressione. I fattori di rischio, come il coinvolgimento ungueale, dovrebbero essere monitorati nel tempo con strumenti oggettivi, e l’ecografia può offrire un valido supporto per valutare l’efficacia del trattamento prima ancora che siano visibili miglioramenti clinici. Inoltre, un intervento precoce che mantenga l’infiammazione sotto controllo e riduca le riacutizzazioni può attenuare l’impatto cumulativo della psoriasi sulla vita del paziente, sia dal punto di vista sociale che psicologico ed economico.

In sintesi, il coinvolgimento ungueale nella psoriasi si conferma un indicatore significativo del rischio di artrite psoriasica. La durata della malattia ne amplifica la probabilità, e bimekizumab si dimostra efficace nel mantenere la risoluzione a lungo termine in queste aree critiche. L’ecografia ad alta frequenza, nelle mani del dermatologo, può diventare uno strumento fondamentale per esplorare le alterazioni ungueali in fase precoce e, in prospettiva, contribuire a dimostrare il legame tra psoriasi ungueale e artrite psoriasica.

Referenze

Magnolo N. Is inflammation control in psoriasis essential or optional? Presented at EADV 2025.
Pinter A. Looking forward: Can we modify the course of psoriasis? Presented at EADV 2025.
Dini V. How is inflammation setting the stage for disease progression? Presented at EADV 2025.