La risonanza magnetica funzionale (fMRI) potrebbe rappresentare una nuova frontiera nella gestione dell’artrite reumatoide (AR), aiutando a prevedere la risposta ai farmaci biologici
La risonanza magnetica funzionale (fMRI) potrebbe rappresentare una nuova frontiera nella gestione dell’artrite reumatoide (AR), aiutando a prevedere la risposta ai farmaci biologici, in particolare agli inibitori del fattore di necrosi tumorale (TNF). Lo suggerisce uno studio pubblicato su The Lancet Rheumatology, guidato dal Prof. Georg Schett dell’Università Friedrich-Alexander di Erlangen, in Germania. Anche se non ancora pronta per l’uso clinico, questa tecnica potrebbe rivoluzionare il modo in cui si personalizza il trattamento.
E’ stato condotto uno studio di fase 3, multicentrico, in doppio cieco, controllato con placebo, a gruppi paralleli e randomizzato, in pazienti con artrite reumatoide attiva presso sei centri reumatologici in Germania, Portogallo e Serbia. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a una risonanza magnetica funzionale (fMRI) cerebrale al basale per misurare l’attivazione del dolore a livello del sistema nervoso centrale (SNC).
I pazienti (di età ≥18 anni) con artrite reumatoide attiva nonostante l’uso di almeno un farmaco antireumatico modificante la malattia sintetico convenzionale (csDMARD) sono stati stratificati in base al volume di attivazione rilevato dalla fMRI (alto o basso) e assegnati in modo casuale, secondo un rapporto 2:1 e tramite una lista di randomizzazione generata da uno statistico dello studio, al trattamento con l’inibitore del TNF certolizumab pegol (400 mg per via sottocutanea alle settimane 0, 2 e 4, seguito da 200 mg ogni due settimane per un massimo di 24 settimane) oppure a placebo.
Pazienti e medici erano in cieco rispetto all’assegnazione del trattamento. L’obiettivo primario era la proporzione di pazienti che raggiungevano una bassa attività di malattia (punteggio DAS28 ≤3,2) alla settimana 12, analizzata secondo il principio dell’intention-to-treat.
Lo studio, denominato PreCePra, ha coinvolto 139 pazienti; il gruppo con “alta attività cerebrale” ha mostrato la risposta clinica migliore, con il 57% dei pazienti che ha raggiunto una bassa attività di malattia (DAS28 ≤ 3,2) entro 12 settimane, contro il 44% del gruppo con “bassa attività cerebrale” e solo il 26% del gruppo placebo.
Il volume di attivazione cerebrale è stato valutato comprimendo un’articolazione dolente e confrontandolo con un’attività di controllo (tapping delle dita). Il cutoff stabilito per alta attivazione era di 700 voxel per 5,9 cm³. I ricercatori hanno scelto di valutare l’attività cerebrale globale, anziché specifiche aree, per favorire una futura applicazione clinica semplice.
Il razionale alla base dello studio è che dolore e affaticamento, spesso riferiti soggettivamente dai pazienti, possano avere correlati oggettivi nell’attività cerebrale. Secondo Schett, livelli elevati di attivazione del sistema nervoso centrale (SNC) potrebbero riflettere una forma “soggettiva” della malattia che, se presente, risponde meglio all’inibizione delle citochine come il TNF.
Sebbene la differenza tra i due gruppi attivi (57% vs 44%) non sia risultata statisticamente significativa, i ricercatori sottolineano che l’attività cerebrale è risultata il miglior predittore singolo di risposta al trattamento rispetto a qualsiasi altro parametro clinico o demografico. Inoltre, nei pazienti con alta attivazione cerebrale, le fMRI post-trattamento mostravano una chiara riduzione dell’attività nelle aree cerebrali coinvolte nel dolore, mentre ciò non avveniva nei gruppi placebo e a bassa attivazione.
Nel loro commento allo studio, Neil Basu e Kristian Stefanov dell’Università di Glasgow riconoscono il valore innovativo della ricerca, pur sollevando alcune criticità. In particolare, sottolineano che il modello predittivo sviluppato si basa sugli stessi dati usati per definire i gruppi (rischio di “logica circolare”) e che le sue performance sono comparabili – se non inferiori – a quelle di altri modelli basati su biomarcatori. Tuttavia, affermano anche che i dati cerebrali potrebbero arricchire un futuro approccio multiparametrico alla personalizzazione delle terapie.
In conclusione, lo studio PreCePra rappresenta un passo pionieristico nell’applicazione dell’imaging cerebrale alla reumatologia. Sebbene non ancora pronti per l’integrazione nella pratica clinica, i risultati indicano che la fMRI potrebbe offrire un nuovo strumento per personalizzare la terapia nei pazienti con artrite reumatoide, andando oltre l’infiammazione articolare per esplorare il ruolo del cervello nella percezione e nella risposta alla malattia.
Con ulteriori ricerche, queste evidenze potrebbero tradursi in nuove strategie terapeutiche basate sul cosiddetto “asse cervello-articolazione”, migliorando efficacia e qualità della vita per milioni di pazienti.
Andreas Hess et al., Disease-associated brain activation predicts clinical response to TNF inhibition in rheumatoid arthritis (PreCePra): a randomised, multicentre, double-blind, placebo-controlled phase 3 study Lancet Rheumatol. 2025 Aug;7(8):e565-e575.
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