Declino cognitivo e demenza preoccupano 9 italiani su 10


Metà dei casi di declino cognitivo evolve in demenza. La malattia non va accettata con rassegnazione: puntare su prevenzione e intervento precoce

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Nell’Italia che invecchia, i disturbi cognitivi e le demenze sono un’emergenza sociosanitaria crescente e sempre più temuta: 9 italiani su 10 sono preoccupati per se stessi o che un proprio caro possa soffrirne in futuro, temendo soprattutto la perdita di autonomia, l’isolamento e il carico emotivo ed economico sul nucleo familiare, anche a causa della carenza di servizi socio-assistenziali, paventata da oltre il 70% di cittadini.

Sono alcuni dei dati emersi da un’indagine realizzata dall’istituto di ricerche ‘EMG Different’ su un campione di 1000 italiani tra i 24 e i 75 anni che ha indagato il livello di conoscenza su declino cognitivo e demenza, portando all’attenzione percezioni e bisogni informativi dei cittadini.

In Italia il declino cognitivo e la demenza interessano 2 milioni di pazienti e 4 milioni di caregiver. Si stima che oltre 1 milione di persone soffrano di demenza (di cui 600.000 con malattia di Alzheimer) e altre 900mila siano affette da declino cognitivo live, conosciuto anche con l’acronimo inglese MCI (Mild Cognitive Impairment). Si tratta di una condizione clinica caratterizzata dal peggioramento in uno o più domini cognitivi (memoria, attenzione, linguaggio) che non compromette le normali attività quotidiane, ma su cui è necessario agire tempestivamente perché in circa il 50% dei casi progredisce in demenza nell’arco di 3 anni.

Una sfida, dunque, da affrontare con diagnosi precoci e interventi mirati, ma anche promuovendo la conoscenza e la lotta allo stigma sociale. Gli italiani sono concordi (93%) sulla necessità di una maggiore informazione sull’argomento: nonostante la crescente sensibilità sui disturbi cognitivi, che per il 97% della popolazione costituiscono un grave problema per le famiglie e per la società, quasi 1 italiano su 2 (46%) dichiara di non sapere che la prevenzione è un’alleata per contrastare il declino cognitivo, e solo il 29% è consapevole della possibilità di intervenire sul decorso della malattia con trattamenti adeguati. Da non sottovalutare anche l’impatto della demenza sulla spesa sanitaria, che per il 63% è totalmente a carico delle famiglie.

All’esordio del disturbo cognitivo, la persona è autonoma, può continuare a lavorare, guidare e svolgere le attività abituali, anche se inizia a mostrare segnali che dovrebbero rappresentare dei campanelli d’allarme. Tuttavia, a fronte di un’ampia consapevolezza dei sintomi, riscontrata in oltre il 90% degli intervistati, non sempre risulta facile percepirli su se stesso o su un proprio caro.

“Il declino cognitivo lieve è un quadro clinico da attenzionare al massimo perché rappresenta la fase della diagnosi precoce e coinvolge in prima persona il medico di medicina generale”, spiega Alessandro Pirani, rappresentante SIMG – Tavolo permanente Demenze, Ministero della Salute“Il disturbo delle capacità di memoria è il segnale più eclatante, ma spesso viene ignorato o sminuito a causa dello stigma che lo ‘relega’ a un normale aspetto dell’invecchiamento. Altri campanelli d’allarme sono la comparsa di depressione, cambiamenti del carattere, la tendenza a perdere il filo del discorso. Inoltre, nella progressione della malattia, compaiono i disturbi del comportamento: insonnia, oppositività (il paziente non mangia, non si lascia lavare), aggressività fisica e verbale. La stabilizzazione di questi sintomi, che causano forte stress emotivo nei familiari, è un obiettivo assistenziale prioritario e decisivo ai fini della gestione del paziente al domicilio”.

Le ripercussioni sul nucleo familiare sono tra le principali preoccupazioni degli italiani: per oltre il 90% degli intervistati, prendersi cura di un paziente affetto da disturbo cognitivo è fonte di stress e influisce sull’economia e sulla socialità di tutta la famiglia.

“La demenza non è una condizione da accettare con rassegnazione. Serve un impegno condiviso, anche sul piano dell’informazione all’opinione pubblica, per superare i pregiudizi verso le persone anziane e combattere lo stigma sociale che ancora accompagna la malattia”, afferma Piero Secreto, componente Comitato tecnico-scientifico per le Linee Guida “Diagnosi e trattamento di demenza e Mild Cognitive Impairment”. “La Linea guida riempie un vuoto culturale rispetto alla possibilità di attuare una serie di interventi che riguardano la diagnosi, il trattamento, l’assistenza e il supporto ai pazienti, per metterli nelle condizioni di conservare una buona qualità di vita. Una novità rispetto alle Linee guida internazionali ha riguardato l’inserimento del declino cognitivo lieve accanto alla demenza, a conferma del valore di un intervento precoce sull’evoluzione della malattia e sul benessere complessivo del paziente”.

“Assistere una persona con demenza è un impegno gravoso che ricade quasi per intero sul nucleo familiare, sul piano psicofisico, sociale ed economico, ed è comprensibile che questo sia uno degli aspetti che più preoccupa gli italiani rispetto all’eventualità che la malattia possa colpire un proprio caro”, afferma Donatella Oliosi, Presidente Associazione Di.A.N.A. onlus – Associazione diritti non autosufficienti. “Questo perché, pur rientrando nella competenza del Servizio sanitario nazionale in quanto malati cronici, le famiglie non ricevono sufficienti prestazioni e adeguati sostegni dai servizi sanitari territoriali: in molti casi i centri diurni rappresentano un sollievo per le famiglie, ma andrebbero dimensionati sul reale fabbisogno, così come dovrebbe essere garantito in maniera uniforme l’accesso in struttura per quei pazienti che non possono più essere assistiti al domicilio. I malati e le famiglie devono essere accolti e accompagnati nella presa in carico di competenza del Servizio sanitario nazionale”.

“Attualmente, il 64% dei pazienti con demenza non risulta in carico presso strutture sociosanitarie”, spiega Paolo Sciattella, Farmaco economista dell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma. “Un dato che dà la misura dell’onere della malattia sulle famiglie dei pazienti, non solo sul piano assistenziale ma anche economico: circa il 63% dei costi per la gestione e il trattamento dei pazienti è completamente a carico del paziente (spesa out-of-pocket), pari a 14,8 miliardi di euro su una spesa totale annua complessiva di 23,6 miliardi di euro. A ciò si aggiungano i costi indiretti legati alla perdita di produttività dei caregiver quantificati in 4,9 miliardi di euro, che interessano prevalentemente i pazienti non istituzionalizzati”.