Inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 utili a prevenire l’Alzheimer


Alzheimer, possibile prevenzione con l’impiego di inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5. Arrivano dati osservazionali promettenti

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Gli uomini a cui sono stati prescritti farmaci per trattare la disfunzione erettile (DE) di nuova diagnosi hanno il 18% in meno di probabilità di sviluppare la malattia di Alzheimer (AD) durante un periodo di follow-up di 5 anni, secondo i risultati di una nuova ricerca pubblicati online su “Neurology”.

Lo studio è il secondo negli ultimi anni a suggerire un’associazione tra l’uso di inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE5I) come il sildenafil o il tadalafil e la riduzione del rischio di AD. I risultati contraddicono quelli di un terzo studio che non ha mostrato alcun legame tra i due.

Sebbene la ricerca sia interessante, esperti esterni hanno fatto notare che non ci sono prove che i farmaci possano trattare l’AD e invitano alla cautela nell’interpretazione dei risultati. I ricercatori sono d’accordo, ma ritengono che i risultati offrano una direzione per studi futuri e sottolineano l’importanza di indagare se le terapie approvate esistenti possono essere riproposte per trattare l’AD.

«I risultati positivi del nostro ampio studio su oltre 250.000 uomini sono promettenti e possono essere utilizzati per migliorare la capacità e la conoscenza della ricerca, con un potenziale impatto futuro sull’uso clinico e sulla politica di salute pubblica» scrivono gli autori, guidati dall’autrice senior Ruth Brauer, dell’University College di Londra.

«Tuttavia, prima di raccomandare l’uso di PDE5I per ridurre il rischio di AD, è necessario più lavoro per convalidare i risultati del nostro studio, in particolare in una popolazione più generalizzabile che includa soggetti senza disfunzione erettile» continuano.

Rilevata una forte associazione
Lo studio si è basato sui dati sanitari di base del Regno Unito e ha incluso 269.725 uomini (età media, 59 anni) con DE di nuova diagnosi, il 55% dei quali aveva ricevuto prescrizioni per PDE5I. I partecipanti erano privi di problemi di memoria o cognitivi all’inizio dello studio e sono stati seguiti per una mediana di 5,1 anni. I ricercatori hanno tenuto conto di una serie di potenziali fattori di rischio di AD, tra cui lo stato di fumo, l’uso di alcol, l’indice di massa corporea, l’ipertensione, il diabete, la depressione, l’ansia e l’uso concomitante di farmaci.

Durante il periodo di studio, a 749 pazienti nel gruppo PDE5I è stata diagnosticata l’AD, corrispondente a un tasso di 8,1 casi per 10.000 anni-persona. Tra coloro che non hanno assunto i farmaci, 370 hanno sviluppato l’AD, corrispondente a un tasso di 9,7 casi per 10.000 anni-persona.

Nel complesso, l’inizio di un trattamento con PDE5I è stato associato a un rischio inferiore del 18% per AD ( hazard ratio aggiustato [aHR], 0,82; IC 95%, 0,72-0,93) rispetto a quelli senza prescrizione. L’associazione era più forte nelle persone di età pari o superiore a 70 anni e in quelle con una storia di ipertensione o diabete. La maggiore riduzione del rischio è stata riscontrata nelle persone con il maggior numero di prescrizioni durante il periodo di studio.

In particolare, i pazienti con 21-50 prescrizioni avevano un rischio inferiore del 44% per l’AD (aHR, 0,56; IC 95%, 0,43-0,73) e quelli con più di 50 prescrizioni avevano il 35% in meno di probabilità di ricevere una diagnosi di AD (aHR, 0,65; IC 95%, 0,49-0,87). Non c’è stata alcuna associazione con il rischio di AD negli individui che avevano ricevuto meno di 20 prescrizioni.

I ricercatori hanno anche analizzato le associazioni dopo aver introdotto un periodo di ritardo di 1 e 3 anni dopo l’ingresso nella coorte per valutare il periodo di latenza tra l’insorgenza dell’AD e la diagnosi. I risultati primari sono stati mantenuti con un periodo di ritardo di 1 anno, ma hanno perso significatività con l’inclusione di un periodo di ritardo di 3 anni.

Nelle analisi per sottogruppi, i ricercatori hanno trovato prove di riduzione del rischio di AD in coloro che avevano ricevuto prescrizioni di sildenafil (aHR, 0,81; IC 95%, 0,71-0,93), ma non c’erano prove di riduzione del rischio rispetto ai non utilizzatori in coloro che avevano ricevuto tadalafil e vardenafil.

Un minor rischio di AD è stato riscontrato nei pazienti con ipertensione, diabete e negli uomini di età pari o superiore a 70 anni, ma non c’era alcuna associazione negli uomini più giovani o in quelli senza storia di ipertensione o diabete.

Sebbene i ricercatori abbiano controllato un’ampia gamma di potenziali fattori di rischio, Brauer osserva che fattori confondenti non misurati come l’attività fisica e sessuale, che non sono stati monitorati e possono prevedere l’esposizione ai PDE5I, possono aver influenzato i risultati.

Cautela nel riposizionamento dei farmaci
Oltre alle limitazioni citate dagli autori dello studio, le diagnosi di AD non sono state fatte con il test “gold standard” che in genere include biomarcatori di imaging e valutazioni post-mortem, commenta Ozama Ismail, direttore dei programmi scientifici dell’Alzheimer’s Association, che non ha preso parte allo studio attuale.

«Sebbene questo studio sia interessante e aggiunga una potenziale associazione, non ci sono prove che questi farmaci siano in grado di trattare l’AD» aggiunge Ismail. «Le persone non dovrebbero usare gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 per la prevenzione dell’Alzheimer o di altre demenze sulla base di questo risultato molto preliminare» dichiara.

Tuttavia, Ismael afferma che lo studio evidenzia una potenziale nuova strada per il riposizionamento dei farmaci. «Il riposizionamento di trattamenti esistenti e già approvati può essere una parte preziosa dello sviluppo di farmaci perché, attraverso test già completati, sappiamo molto sulla loro sicurezza e sugli effetti collaterali», il che può ridurre i costi e i tempi necessari per gli studi, sottolinea.

«Quando si considera di riproporre un farmaco esistente per il trattamento dell’AD, tuttavia, è spesso importante condurre nuovi studi per periodi di tempo più lunghi e nelle persone anziane che riflettono la diversità degli individui che convivono con l’AD» avverte Ismael.

Necessarie conferme da studi randomizzati
Brauer è d’accordo, sottolineando che tale studio dovrebbe includere anche persone con decadimento cognitivo lieve e misurare gli effetti dei PDE5I somministrati in dosi predefinite più un inibitore dell’acetilcolinesterasi o placebo. «L’esito primario dovrebbe essere il cambiamento nella funzione cognitiva di base» afferma. «Questo approccio fornirebbe una comprensione completa dei potenziali benefici terapeutici dei PDE5I e dell’AD».

Sono necessari anche studi per comprendere meglio i meccanismi con cui questi farmaci possono influenzare il rischio di AD, osservano in un editoriale di accompagnamento Sevil Yasar e Lolita Nidadavolu, della Divisione di Medicina Geriatrica e Gerontologia dell Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora.

La forte associazione tra l’uso dei PDE5I e il rischio di AD nelle persone con una storia di ipertensione o diabete suggerisce «un potenziale effetto neuroprotettivo attraverso un percorso vascolare» scrivono. Gli studi in vitro sul ruolo dell’infiammazione e dell’eliminazione della beta-amiloide potrebbero rafforzare i risultati di studi come questo, e gli studi in vivo potrebbero aiutare a spiegare i meccanismi alla base dell’uso dei PDE5I nel ridurre il rischio di AD, sostengono Yasar e Nidadavolu.

«Alla fine, tuttavia, ulteriori studi osservazionali che esplorino i meccanismi non dimostreranno un’associazione causale» scrivono. «È necessario uno studio controllato randomizzato ben progettato prima che i farmaci PDE5I possano essere prescritti per la prevenzione dell’AD».

Fonti:
Adesuyan M, Jani YH, Alsugeir D, et al. Phosphodiesterase Type 5 Inhibitors in Men With Erectile Dysfunction and the Risk of Alzheimer Disease: A Cohort Study. Neurology. 2024 Feb 27;102(4):e209131. doi: 10.1212/WNL.0000000000209131. leggi

Yasar S, Nidadavolu L. Repurposing Erectile Dysfunction Medication for Alzheimer Disease Prevention. Neurology. 2024 Feb 27;102(4):e209180. doi: 10.1212/WNL.0000000000209180. leggi