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Ferro endovena per scompenso cardiaco: esperti divisi

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Scompenso cardiaco e ferro endovena, lo studio HEART-FID non centra l’endpoint, ma una nuova metanalisi mostra un ruolo positivo

Ampio dibattito quest’anno al congresso europeo di cardiologia (ESC), tenutosi ad Amsterdam, sul ruolo e l’efficacia della supplementazione con ferro endovena nelle persone con scompenso cardiaco. Dibattito alimentato da due studi presentati al meeting i cui risultati non vanno esattamente nella stessa direzione.

Nello studio HEART-FID, un ampio studio randomizzato, controllato e in doppio cieco, il trattamento con carbossimaltosio ferrico (FCM) non ha migliorato in modo statisticamente significativo rispetto al placebo i risultati in termini di decessi, ricoveri per insufficienza cardiaca e capacità di esercizio in pazienti ambulatoriali con scompenso cardiaco con frazione di eiezione ridotta (HFrEF) e carenza di ferro.

Nonostante HEART-FID non sia il primo studio sull’integrazione di ferro nello scompenso cardiaco a non raggiungere l’endpoint primario, vari esperti del settore restano convinti che valga la pena prendere in considerazione l’FCM nei pazienti con scompenso cardiaco e carenza marziale.

Questa convinzione è sostenuta dal secondo studio sul tema presentato ad Amsterdam, subito dopo l’HEART-FID, in una Hot Line session da Piotr Ponikowski, dell’Università di Wroclaw, in Polonia. Si tratta di una metanalisi di tre studi, nella quale, combinando i pazienti dello studio HEART-FID con quelli degli studi CONFIRM-HF e AFFIRM-AHF, i ricercatori hanno dimostrato che l’integrazione con ferro ha ridotto significativamente i ricoveri cardiovascolari totali e la mortalità cardiovascolare rispetto al placebo (Rate Ratio [RR] 0,86; IC al 95% 0,75-0,98). Un secondo endpoint primario, ovvero il totale dei ricoveri per insufficienza cardiaca e la mortalità cardiovascolare, è sceso appena al di sotto della significatività statistica (RR 0,87; IC al 95% 0,75-1,01).

Il trattamento con FCM è risultato superiore rispetto al placebo anche considerando vari endpoint presi singolarmente, ha riferito Ponikowski: il totale dei ricoveri per cause cardiovascolari è stato relativamente inferiore del 17%, quello dei ricoveri per scompenso cardiaco è stato inferiore del 16% e quello dei ricoveri per tutte le cause inferiore del 13%.

Riguardo al risultato dello studio HEART-FID, Aldo Maggioni, Direttore Centro Studi ANMCO, ha detto ai microfoni di PharmaStar che lo studio non ha raggiunto l’endpoint primario, perché «era richiesto un livello di significatività statistica molto elevato: nella discussione con la Food and drug administration per l’approvazione al protocollo si è fissato come significativo un p value di 0,01». In altre, parole, si è posta la barra molto in alto rispetto al valore convenzionale; tuttavia, ha sottolineato l’esperto, i risultati sono clinicamente rilevanti.

Inoltre, ha aggiunto l’esperto, «i risultati della metanalisi portano a concludere che l’utilizzo di questa strategia (l’integrazione con ferro endovena, ndr) in aggiunta alle strategie usuali e a quelle farmacologiche nei pazienti con frazione di eiezione ridotta o moderatamente ridotta è una terapia da prendere in considerazione, se si diagnostica una carenza marziale».

Studio IRONMAN condizionato dalle restrizioni per il lockdown
Prima dello studio HEART-FID, un altro trial sull’integrazione con ferro nei pazienti con scompenso che non ha raggiunto l’endpoint primario è IRONMAN, presentato l’anno scorso al congresso dell’American Heart Association (AHA). Come lo studio AFFIRM-AHF prima di lui, anche lo studio IRONMAN è stato influenzato dalle misure di lockdown messe in atto per la pandemia di COVID19, ed entrambi i trial alla fine non hanno centrato l’endpoint, sebbene le analisi limitate ai periodi pre-COVID abbiano indicato un beneficio della terapia repletiva con ferro nel ridurre i ricoveri per scompenso cardiaco e i decessi cardiovascolari. Lo studio IRONMAN non è stato incluso nella metanalisi, ha spiegato Ponikowski, perché non era in doppio cieco; tuttavia, ha osservato l’autore, in un’analisi di sensibilità i risultati rimangono sostanzialmente invariati aggiungendo anche i risultati di IRONMAN.
La Food and drug administration (Fda) è già convinta dei dati finora ottenuti: all’inizio dell’estate, infatti, l’ente statunitense ha concesso una nuova indicazione all’uso del ferro per via endovenosa nell’insufficienza cardiaca. Le linee guida sia negli Stati Uniti sia in Europa raccomandano già lo screening per la carenza di ferro, mentre le raccomandazioni europee fanno un ulteriore passo avanti, specificando che l’FCM per via endovenosa può essere preso in considerazione per prevenire futuri ricoveri per insufficienza cardiaca in pazienti sintomatici recentemente ricoverati in ospedale.

Carenza marziale comorbilità frequente nello scompenso
«La carenza di ferro è una comorbilità estremamente frequente nei pazienti con scompenso cardiaco, soprattutto quelli con frazione di eiezione ridotta. Gli studi epidemiologici hanno evidenziato percentuali che superano anche il 50%, indipendentemente dalla presenza di anemia», ha spiegato Maggioni. La percentuale può raggiungere il 70-80% tra i pazienti con insufficienza cardiaca acuta scompensata.
«La carenza marziale comporta innanzitutto un peggioramento della qualità della vita, di solito un aumento della dispnea e anche un aumento del rischio di mortalità cardiovascolare e di mortalità complessiva; pertanto, non va trascurata quando si valuta un paziente con scompenso», ha aggiunto l’esperto.
Eppure, ha rimarcato Maggioni, «fino a 2-3 anni fa, nei vari registri il numero di casi con scompenso cardiaco e frazione di eiezione ridotta nei quali era stata valutata la presenza di una carenza marziale era piuttosto basso. Il problema era davvero sottovalutato e non c’era ancora la cultura di andare a indagare questo aspetto, cosa che va fatta, invece, in maniera sistematica e richiede solo un banale esame del sangue. Ci vuole più consapevolezza».

Lo studio HEART-FID
Lo studio HEART, presentato da Robert Mentz, del Duke University Medical Center di Durham (in North Carolina) e pubblicato in contemporanea sul New England Journal of Medicine, ha arruolato pazienti con HFrEF (frazione di eiezione ≤40% entro 24 mesi o ≤30% entro 36 mesi dallo screening), carenza di ferro, sintomi di classe da II a IV della classificazione della New York Heart Association (NYHA) e che avevano assunto la terapia di fondo massimamente tollerata per almeno 2 settimane prima della randomizzazione, con o senza anemia.
Complessivamente, 3014 pazienti sono stati assegnati secondo un rapporto 1:1 al trattamento con FCM per via endovenosa o un placebo, in aggiunta alla terapia abituale per l’insufficienza cardiaca, in due dosi da 15 mg/kg somministrate a 7 giorni di distanza, ogni 6 mesi, in base agli indici del ferro e ai livelli di emoglobina. Entrambi i bracci hanno ricevuto una media di sei dosi nel corso dello studio. «Il ferro deve essere somministrato per via endovenosa, perché la somministrazione orale non funziona per questione di assorbimento», ha precisato Maggioni.
L’endpoint primario era di tipo gerarchico è prevedeva la valutazione in sequenza della mortalità per tutte le cause a 12 mesi, dei ricoveri totali per scompenso cardiaco a 12 mesi e della variazione rispetto al basale del test del cammino in 6 minuti (6MWT) dopo 6 mesi. L’endpoint secondario principale era un combinazione del tempo intercorso fino al primo ricovero per scompenso cardiaco o al decesso per cause cardiovascolari durante il follow-up. Ulteriori endpoint secondari includevano la mortalità cardiovascolare.

Meno decessi e ricoveri con l’integrazione marziale
I partecipanti sono stati arruolati in 281 centri di 14 Paesi. L’età media era di 69 anni e il 34% era di sesso femminile.
Nei 12 mesi di follow-up, nel braccio trattato con FCM è deceduto numero inferiore di pazienti rispetto al braccio di controllo, con un tasso rispettivamente dell’8,6% contro 10,3%, così come inferiore è stato il numero di coloro che hanno richiesto un ricovero ospedaliero, 297 pazienti contro 332. Infine, i pazienti trattati con l’integrazione marziale hanno ottenuto miglioramenti maggiori nel 6MWT, con una variazione media a 6 mesi di 8±60 m contro 4±59 m. Globalmente, questi risultati hanno prodotto un valore di P (test Wilcoxon-Mann-Whitney) di 0,019, superiore alla soglia del valore P specificata dall’Fda, che era appunto di P = 0,01.
Per quanto riguarda l’endpoint secondario principale, ovvero il tempo al primo ricovero per insufficienza cardiaca o morte cardiovascolare durante la durata totale del follow-up, si sono verificati meno eventi nel braccio trattato con FCM rispetto al braccio placebo (16,0 contro 17,3 eventi per 100 pazienti-anno) con un Hazard Ratio (HR) di 0,93 (IC al 96% 0,81-1,06). Per la mortalità cardiovascolare, l’HR è risultato pari a 0,86 (IC al 96% 0,72-1,03) a favore del trattamento con FCM.

Ricercare un biomarcatore predittivo del beneficio
In conferenza stampa, Mentz ha sottolineato che tutti i risultati dei singoli componenti dell’endpoint primario nello studio HEART-FID, nonostante l’assenza di una significatività statistica, erano «moderatamente» a favore dell’FCM. Sebbene lo studio in sé sia ‘neutro’, ha riconosciuto, «la totalità delle prove sul trattamento con FCM endovena provenienti da studi precedenti in cui si erano valutati endpoint sintomatici e funzionali, combinati con studi su outcome clinici, incluso lo studio HEART-FID, mostra la sicurezza complessiva e i benefici clinici dell’integrazione marziale nei pazienti con HFrEF e carenza di ferro».
«È un momento molto emozionante nella gestione dei pazienti con HFrEF dato il numero di terapie orali di cui disponiamo che migliorano i risultati clinici, aiutano i pazienti a sentirsi meglio e ad avereun percorso migliore», ha affermato l’autore. La reintegrazione del ferro, al contrario, «non è un’altra pillola che i pazienti devono assumere ogni giorno, ma piuttosto è una semplice iniezione che può essere somministrata in ospedale o in clinica».
Sottolineando la totalità dei dati, Ponikowski ha concluso che l’integrazione con FCM «dovrebbe essere presa in considerazione per ridurre il rischio di insufficienza cardiaca e di ricoveri ospedalieri cardiovascolari», aggiungendo che la metanalisi aiuta anche a indicare la strada per la ricerca futura; ricerca che dovrà concentrarsi, tra le altre cose, sull’individuazione di un biomarcatore che possa aiutare a identificare i pazienti con maggiori probabilità di trarre beneficio dall’FCM.
A questo proposito, l’autore ha mostrato dati sulla saturazione della transferrina che suggeriscono come una TSAT più alta sembri essere associata a una mancanza di effetto del trattamento, mentre una TSAT più bassa possa predire un beneficio. « Tanto più è bassa è la saturazione della trasferrina, tanto più è severa la carenza di ferro e tanto maggiore sembra essere l’effetto favorevole dell’integrazione marziale», ha ribadito Maggioni.

Commenti contrastanti
Scott Solomon, del Brigham and Women’s Hospital di Boston, e Pardeep Jhund, dell’Università di Glasgow, invitati come discussant sia dello studio HEART-FID sia della metanalisi di Ponikowski sono sembrati delusi dai dati. Jhund, in particolare, ha sottolineato che la metanalisi presentata è solo l’ultima di una lunga serie di metanalisi sul ferro endovena nell’insufficienza cardiaca, ma il ruolo di questo trattamento nel ridurre la morbilità e la mortalità «resta discutibile», ha affermato.
«Sebbene l’assenza di prove non sia una prova di assenza, gli ampi intervalli di confidenza dell’effetto del trattamento sui ricoveri totali per scompenso cardiaco e sui decessi cardiovascolari lasciano spazio a dubbi sull’efficacia del ferro per via endovenosa nel ridurre i ricoveri per scompenso cardiaco», ha concluso Jhund.
Non tutti, però, hanno una visione così negativa. Nancy K. Sweitzer, della Washington University School of Medicine di St. Louis (Missouri), ha detto che questi risultati aiutano a inquadrare la relazione tra carenza di ferro e insufficienza cardiaca. «Penso che questi studi ci dicano che la carenza di ferro non è sicuramente la patologia alla base dello scompenso: non si soffre di scompenso cardiaco perché si è carenti di ferro, ma in presenza di una carenza marziale lo scompenso può essere peggiore e, in alcuni pazienti, ciò può portare al ricovero in ospedale e persino accelerare il decesso», ha detto. «La carenza di ferro non è la causa dello scompenso cardiaco, ma è un indicatore della gravità della malattia».
E, sebbene l’integrazione di ferro non abbia portato a un miglioramento statisticamente significativo della sopravvivenza, ciò non significa che non sia importante. «Gli studi ci hanno dimostrato chiaramente che trattando la carenza di ferro i pazienti si sentono meglio e migliora la loro capacità di esercizio».
Pertanto, è anche importante che HEART-FID abbia dimostrato che l’integrazione con FCM è molto sicura: infatti, non sono state osservate differenze negli eventi avversi emergenti dal trattamento tra il braccio trattato con FCM e il braccio di controllo.
La Sweitzer ha concluso dicendo che nella sua pratica clinica controlla sempre se vi sia una carenza di ferro in ogni nuovo paziente e in ciascun paziente ricoverato, e a coloro che mostrano una carenza marziale prescrive il ferro endovena.

Bibliografia
R.J. Mentz, et al. Ferric carboxymaltose in heart failure with iron deficiency. N Engl J Med. 2023;Epub ahead of print; doi: 10.1056/NEJMoa2304968. https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2304968

P. Ponikowsi, et al. Effects of FCM on recurrent HF hospitalizations: an individual participant data meta-analysis. ESC 2023. August 25, 2023. Amsterdam, the Netherlands.

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