Scompenso cardiaco: nuovi dati su dapagliflozin studio DELIVER


Dapagliflozin riduce il rischio di morte cardiovascolare o di peggioramento dell’insufficienza cardiaca secondo i risultati dello studio DELIVER

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Dapagliflozin riduce il rischio di morte cardiovascolare o di peggioramento dell’insufficienza cardiaca (HF) – ospedalizzazione non pianificata o visita urgente per HF – nei pazienti con insufficienza cardiaca con frazione di eiezione lievemente ridotta (HFmrEF) e preservata (HFpEF), secondo i risultati dello studio DELIVER presentato a Barcellona al Congresso ESC22 – in una sessione presieduta da Marco Metra dell’Università di Brescia e Marriell Jessup, Chief Science and Medical Officer dell’American Heart Association – e pubblicato contemporaneamente sul “NEJM”.

Il messaggio-chiave dello studio
«Considerato insieme a precedenti ricerche in pazienti con insufficienza cardiaca a frazione di eiezione ridotta (HFrEF), questi dati suggeriscono che dapagliflozin è efficace indipendentemente dalla frazione di eiezione e supporta l’uso di inibitori SGLT2 come terapia fondamentale in tutti i pazienti con HF» ha dichiarato il ricercatore principale Scott Solomon del Brigham and Women’s Hospital, Harvard Medical School di Boston (USA).

I dati di partenza
Studi precedenti hanno dimostrato che l’inibitore SGLT2 dapagliflozin riduce la mortalità e la morbilità cardiovascolari (CV) nei pazienti con diabete di tipo 2 (DM2), malattia renale cronica (CKD) e HFrEF.

In particolare, ha aggiunto Solomon, nei più ampi e numerosi studi clinici randomizzati su HFpEF o HFmrEF – che coprono oltre la metà di tutti i pazienti con HF – dapagliflozin ha ridotto l’endpoint composito di morte CV o peggioramento dell’HF, così come ha migliorato gli endpoint secondari, quali il totale degli eventi HF + morte CV e il carico dei sintomi, indipendentemente dalla frazione di eiezione o dal setting di cura del paziente (ospedalizzato o ambulatoriale).

Il razionale: precisare il ruolo degli SGLT2i in alcuni sottogruppi di pazienti
Più di 64 milioni di persone vivono nel mondo con HF e circa la metà di questi hanno una frazione di eiezione lievemente ridotta o conservata (ovvero > 40%). «Gli inibitori SGLT2 hanno dimostrato di ridurre la morbilità e la mortalità in pazienti con HFrEF (frazione di eiezione ventricolare sinistra [LVEF] </= 40%) e il loro uso è fortemente supportato dalle attuali linee guida di pratica clinica» ha ricordato il ricercatore.

Sono disponibili poche opzioni di trattamento farmacologico per i pazienti con HFmrEF o HFpEF, ha proseguito Solomon. L’anno scorso lo studio EMPEROR-Preserved ha dimostrato la riduzione della morte CV e dei ricoveri per HF con empagliflozin in questa classe di pazienti, ciononostante restano diverse lacune nelle prove relative ai benefici di questa classe di farmaci nei seguenti gruppi di pazienti con HF:

  • soggetti inclusi nella parte più elevata del range di frazione di eiezione, dove studi precedenti hanno dimostrato prove di attenuazione di efficacia;
  • pazienti che hanno iniziato il trattamento durante o subito dopo l’ospedalizzazione;
  • individui con pregressa ridotta frazione di eiezione che è migliorata oltre il 40% (pazienti esclusi da precedenti sperimentazioni).

Lo studio DELIVER è stato progettato per determinare se dapagliflozin avrebbe ridotto la morbilità e la mortalità CV nei pazienti con HFmrEF o HFpEF, un gruppo di pazienti per il quale sono disponibili terapie limitate.

Criteri di inclusione molto ampi rispetto ai trial precedenti
«DELIVER è uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo condotto in 353 siti in 20 paesi» ha spiegato Solomon. «L’arruolamento di pazienti è stato più ampio rispetto a quello dei precedenti studi».

«Nel DELIVER, infatti» ha specificato «sono stati arruolati pazienti di età pari o superiore a 40 anni con HF sintomatica e una frazione di eiezione superiore al 40%, classe NYHA 2-4, evidenza di cardiopatia strutturate e peptidi natriuretici elevati. Tra questi sono stati inclusi pazienti ambulatoriali cronici, ospedalizzati o recentemente ricoverati in ospedale, compresi quanti in precedenza avevano una frazione di eiezione del 40% o inferiore (cioè insufficienza cardiaca con frazione di eiezione migliorata)».

I pazienti sono stati randomizzati a ricevere dapagliflozin oppure placebo e poi seguiti per una mediana di 2,3 anni. L’endpoint primario era un composito di morte CV o peggioramento dell’HF.

«Un totale di 6.263 pazienti sono stati assegnati in modo casuale a dapagliflozin, 10 mg una volta al giorno o placebo. L’età media dei partecipanti era di 72 anni e il 44% erano donne. La frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) media era del 54% e il 18% dei pazienti in precedenza aveva una frazione di eiezione del 40% o inferiore» ha proseguito Solomon.

Al momento della randomizzazione – ha specificato – il 77% dei pazienti stava assumendo un inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitore), un bloccante del recettore dell’angiotensina (ARB o sartano) o un inibitore della neprilisina e del recettore dell’angiotensina (ARNI), l’83% stava assumendo un beta-bloccante e il 43% un antagonista del recettore mineralcorticoide (MRA). La maggior parte dei partecipanti assumeva diuretici dell’ansa.

Endpoint composito primario significativamente ridotto
Nell’arco di una mediana di 2,3 anni, l’esito primario si è verificato in 512 dei 3.131 pazienti (16,4%) nel gruppo dapagliflozin e in 610 dei 3.132 pazienti (19,5%) nel gruppo placebo ( hazard ratio [HR] 0,82; intervallo di confidenza al 95% [CI] 0,73-0,92; p<0,001), con un number needed to treat (NTT) di 32.

Per quanto riguarda i componenti dell’endpoint primario, ha riferito il ricercatore, il peggioramento dell’HF si è verificato in 368 pazienti (11,8%) nel gruppo dapagliflozin e in 455 pazienti (14,5%) nel gruppo placebo (HR 0,79; IC 95% 0,69-0,91; p=0,001) e la morte CV si è verificata in 231 (7,4%) e 261 (8,3%) pazienti, rispettivamente (HR 0,88; IC 95% 0,74-1,05; p=0,17).

Pertanto, ha specificato il ricercatore, il beneficio è stato guidato principalmente dal minore peggioramento dell’HF (ricovero per HF + visita urgente per HF) mentre la riduzione della morte CV non ha raggiunto la significatività statistica.

«La LVEF non ha influenzato i benefici osservati. Per l’endpoint primario, per esempio, l’hazard ratio era 0,77 tra i pazienti con una frazione di eiezione pari o superiore al 60% e 0,83 tra quelli con frazioni di eiezione <60%» ha fatto notare Solomon.

Anche gli esiti secondari chiave sono stati ridotti nei pazienti trattati con dapagliflozin rispetto al placebo, inclusi i ricoveri totali per HF e la morte CV (del 23%) e il carico totale dei sintomi, valutato utilizzando il Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire (KCCQ) (differenza media nel punteggio totale dei sintomi KCCQ 2,4; IC 95% 1,6-3,2).

Gli eventi avversi gravi e quelli che hanno portato a un’interruzione del trattamento (circa 14%) sono stati numericamente simili al braccio placebo. È stata anche condotta un’analisi per verificare se il trattamento con dapagliflozin influisse sulla sensibilità dei test per la diagnosi del COVID-19: non si sono mai avuti falsi negativi nei 589 pazienti infetti dal SARS-CoV-2.

«Abbiamo rilevato che dapagliflozin ha ridotto significativamente l’endpoint composito primario del 18%, con tassi numericamente più bassi in tutti i componenti dell’endpoint primario stesso» ha sottolineato Solomon.

«Questi benefici erano coerenti tra i sottogruppi prespecificati, con benefici simili nei pazienti con frazione di eiezione pari o superiore al 60% (senza attenuazione di beneficio dal trattamento, segnalato in precedenza), in quelli con insufficienza cardiaca con frazione di eiezione migliorata (da HFrEF a LVEF>40%, un gruppo che era stato escluso da tutti i precedenti trial), così come nei pazienti che sono stati ricoverati in ospedale di recente, ed è stato accompagnato da un miglioramento dei sintomi» ha concluso.

Probabile aggiornamento delle linee guida
In un commento dopo la presentazione di Solomon, Theresa McDonagh, del King’s College London (UK), discussant dello studio, ha osservato che «le linee guida per l’insufficienza cardiaca dell’ESC aggiornate l’anno scorso – per le quali McDonagh è stata una degli estensori principali – non contengono alcuna raccomandazione per l’uso di inibitori SGLT2 in pazienti con HFmrEF o HFpEF perché sono state completate prima che EMPEROR-Preserved uscisse. Ma hanno suggerito che questo aspetto probabilmente sarebbe cambiato».

«Le commissioni delle linee guida in corso ora hanno due studi da considerare, e le discussioni sulle raccomandazioni di classe 1A sono certamente in agenda» ha detto.

Inoltre, i risultati di DELIVER «contribuiranno anche al dibattito in corso sulla classificazione dell’HF cronica in base alla LVEF e potrebbero contribuire all’abolizione del termine HFpEF e alla sua sostituzione con HF con frazione di eiezione normale [HFnEF]» ha aggiunto McDonagh. «Auspico che questo studio possa aiutare anche a stabilire quale potrebbe essere il “nuovo’ numero normale”, per esempio 60% oppure genere-specifico».

«Il meccanismo d’azione di dapagliflozin resta da essere provato. Sono stati postulati miriadi di effetti, in particolare quello diuretico» ha proseguito McDonagh. «Nel DELIVER molti pazienti facevano uso di diuretici dell’ansa e di antagonisti MRA. Ciò evidenzia l’impiego additivo della gliflozina e potrebbe far pensare a un forte blocco sequenziale del nefrone». In ogni caso, ha detto McDonagh, il farmaco è sicuro e ben tollerato.

Fonti:
Solomon SD. Dapagliflozin in Heart Failure with Mildly Reduced or Preserved Ejection Fraction. The DELIVER Trial. ESC22. Barcelona (Spain)

Solomon SD, McMurray JJV, Claggett B, et al. Dapagliflozin in Heart Failure with Mildly Reduced or Preserved Ejection Fraction. N Engl J Med. 2022 Aug 27. doi: 10.1056/NEJMoa2206286. [Epub ahead of print] Link