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Covid: arresto cardiaco dopo ricovero aumenta rischio di morte

Semaforo verde all'anticoagulazione a dose piena per ridurre il rischio di complicanze trombotiche venose e arteriose nei pazienti con COVID-19 in condizioni critiche

I pazienti con Covid rispondono peggio dopo un arresto cardiaco in ospedale, secondo uno studio statunitense a livello nazionale

I pazienti con COVID-19 rispondono peggio dopo un arresto cardiaco in ospedale – secondo uno studio statunitense a livello nazionale pubblicato su “JAMA Network Open”, ma la situazione non è così grave come suggerito dai rapporti emersi all’inizio della pandemia.

Rispetto ai pazienti ospedalizzati che non sono stati infettati da SARS-CoV-2, quelli con COVID-19 hanno avuto tassi più bassi di sopravvivenza alla dimissione e di un ritorno della circolazione spontanea per 20 minuti o più, riportano i ricercatori guidati da Saket Girotra, dell’University of Iowa Carver College of Medicine, Iowa City.

Defibrillazione ritardata
I pazienti avevano anche maggiori probabilità di ricevere più tardivamente la defibrillazione, sebbene gli esiti peggiori nei pazienti con COVID-19 persistessero anche nel gruppo che aveva ricevuto un trattamento tempestivo.

Da notare, tuttavia, che la sopravvivenza tra i pazienti con COVID-19 in questo studio, sebbene ancora scarsa (11,9%), era migliore di quanto alcuni avessero temuto sulla base di piccoli studi iniziali negli Stati Uniti e in Cina, che hanno fornito tassi da zero a 3%. Ciò aveva scatenato alcune ipotesi sull’implementazione di un ordine universale di non rianimazione per i pazienti infetti dal virus, sia per evitare uno sforzo inutile sia per limitare l’esposizione degli operatori sanitari al COVID-19.

Girotra e colleghi affermano di non essere a conoscenza di alcun centro che abbia effettivamente implementato una tale politica, sostenendo che «i nostri risultati suggeriscono che l’infezione da COVID-19 da sola non dovrebbe essere utilizzata come fattore per evitare la rianimazione cardiopolmonare (RCP) in questi pazienti. Questi dati dovrebbero essere utilizzati per guidare le discussioni tra i medici e i loro pazienti e le loro famiglie in merito alle loro preferenze, dando loro le probabilità di sopravvivenza in base all’esperienza di ospedali statunitensi simili in tutto il Paese».

Dati tratti dal “Get With the Guidelines-Resuscitation registry”
Per questo studio, i ricercatori hanno esaminato i dati dell’American Heart Association “Get With the Guidelines-Resuscitation registry”. L’analisi ha incluso 24.915 adulti (età media 64,7 anni; 39,5% donne) che hanno avuto un arresto cardiaco in ospedale in uno dei 286 ospedali partecipanti tra marzo e dicembre 2020.

Circa un quarto (23,7%) aveva un COVID-19 sospetto o confermato, una percentuale più alta del previsto che «evidenzia l’enorme onere della pandemia COVID sulle cure di rianimazione ospedaliera» sottolineano Girotra e colleghi. Sebbene questi pazienti fossero più giovani di quelli che non avevano COVID-19, erano più malati, avendo maggiori probabilità di avere insufficienza respiratoria, di essere sottoposti a ventilazione assistita e di avere un ritmo iniziale non defibrillabile.

Anche dopo aver tenuto conto di tali differenze, i pazienti con COVID-19 hanno avuto tassi più bassi di sopravvivenza alla dimissione (11,9% vs 23,5%; RR aggiustato 0,65; IC 95% 0,60-0,71) e di un ritorno della circolazione spontanea per 20 minuti o più (53,7% vs 63,6%; RR aggiustato 0,86; IC 95% 0,83-0,90). La defibrillazione di un ritmo shockabile è stata ritardata più frequentemente nei pazienti infetti dal virus (36,6% vs 27,7%; RR 1,30; 95% CI 1,09-1,55), ma non c’era differenza tra i gruppi nella tempestività della somministrazione di adrenalina.

La sopravvivenza più scarsa, tuttavia, è stata coerente tra diversi sottogruppi, compresi i pazienti con diagnosi non chirurgiche, quelli in terapia intensiva e quelli che non hanno avuto ritardi nella defibrillazione o nell’adrenalina. «La sopravvivenza più bassa è molto probabilmente dovuta al fatto che questi pazienti erano molto più malati quando hanno avuto un arresto cardiaco rispetto ai pazienti che non sono stati infettati dal COVID-19» affermano i ricercatori.

Gli autori aggiungono che non è chiaro quale impatto avrebbe su questi risultati una più ampia disponibilità di vaccini, che riducono la gravità dell’infezione, riducono i ricoveri e presumibilmente riducono il rischio di arresto cardiaco in ospedale, affermando di essere interessati a esplorare questo aspetto in studi futuri. Anche la tendenza più ampia nel tempo di sopravvivenza dopo l’arresto cardiaco in ospedale dovrebbe essere monitorata, indicano.

«Negli ultimi due decenni, abbiamo sperimentato un miglioramento significativo nella sopravvivenza all’arresto cardiaco in ospedale. La pandemia di COVID-19 ha minato in modo significativo tali vantaggi» osservano Girotra e colleghi. «Sarebbe importante vedere se sia possibile tornare tornare ai livelli prepandemici di sopravvivenza all’arresto cardiaco in ospedale una volta che la pandemia sarà regredita».

Riferimento bibliografico:
Girotra S, Chan ML, Starks MA, et al. Association of COVID-19 Infection With Survival After In-Hospital Cardiac Arrest Among US Adults. JAMA Netw Open. 2022;5:e220752. doi: 10.1001/jamanetworkopen.2022.0752. Leggi

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