Leucemia linfatica: ibrutinib migliora sopravvivenza


Leucemia linfatica cronica con mutazioni del gene TP53: ibrutinib come terapia di prima linea migliora la sopravvivenza dei pazienti

Leucemia linfatica cronica, il CHMP dell'Agenzia europea del farmaco dice sì all’estensione d’indicazione per ibrutinib più rituximab

Ibrutinib, somministrato come terapia di prima linea in pazienti affetti da leucemia linfatica cronica con mutazioni del gene TP53, ha mostrato un’efficacia prolungata e un impressionante aumento dei tassi di sopravvivenza sia totale (OS) sia libera da progressione (PFS) a 4 anni. Lo dimostra un’analisi aggregata di quattro studi clinici presentata all’ultimo International Congress on Hematologic Malignancies.

Secondo quest’analisi, con un follow-up mediano di 4 anni (<1-8 anni), a 48 mesi il tasso di OS era dell’88% e il tasso di PFS del 79%.

All’efficacia si è associato anche un buon profilo di tollerabilità; infatti, anche con un follow-up prolungato non sono emersi nuovi segnali relativi alla sicurezza e l’incidenza degli eventi avversi di interesse clinico, di grado 3 o superiori, è diminuita dopo il primo anno di trattamento.

«Sebbene i pazienti portatori di mutazioni del gene TP53 restino a rischio di progressione, il trattamento in prima linea con ibrutinib ne ha migliorato considerevolmente la prognosi» ha dichiarato Inhye E. Ahn, del National Heart, Long, and Blood Institute di Bethesda.

Le mutazioni del gene TP53 sono lesioni importanti dal punto di vista prognostico, in quanto associate a scarsa risposta alla terapia e a una ridotta sopravvivenza. Nei pazienti sottoposti alla chemioimmunoterapia, la presenza di queste alterazioni genetiche spesso porta a risultati inferiori rispetto ai pazienti che non le presentano.

Ibrutinib, un inibitore della tirosin-chinasi di Bruton (BTK), è attualmente approvato sia negli Usa sia nell’Unione europea nel setting della prima linea come trattamento per i pazienti con leucemia linfatica cronica, in monoterapia o in combinazione con gli anticorpi anti-CD20 rituximab o obinutuzumab.

Analisi di quattro studi clinici
Attraverso un’analisi aggregata di quattro studi di fase 2 e 3, gli autori hanno valutato l’efficacia a lungo termine e la sicurezza del trattamento con ibrutinib in pazienti con leucemia linfatica cronica e mutazioni del gene TP53.

Gli studi clinici presi in esame sono: lo studio di fase 2 PCYC-1122e (NCT01500733), in cui si è valutato ibrutinib in monoterapia in pazienti con leucemia linfatica cronica portatori della delezione (del)17p o con TP53 mutato; lo studio di fase 3 RESONATE-2 (NCT01722487), condotto su ibrutinib in monoterapia in pazienti con TP53 mutato; lo studio di fase 3 iLLUMINATE (NCT02264574), sull’associazione ibrutinib/obinutuzumab in pazienti con del(17p)/TP53 mutato; lo studio di fase 3 ECOG1912 (NCT02048813), in cui si è testata la combinazione ibrutinib più rituximab in pazienti con TP53 mutato.

Gli outcome presi in esame sono PSF, OS, tasso di risposta obiettiva (ORR), tasso di risposta completa (CR) e sicurezza. Per le analisi della PFS e dell’OS è stato impiegato il metodo Kaplan-Meyer, mentre l’ORR è stato misurato secondo le linee guida dell’International Workshop on Chronic Lymphocytic Leukemia del 2008.

Oltre 9 pazienti su 10 con mutazioni di TP53
Il pool di dati si riferiva a 89 pazienti con età mediana 65 anni (intervallo: 33-87), di cui il 69% maschi. Oltre la metà (il 53%) aveva uno stadio di malattia III/IV secondo Rai e il 38% una massa mediastinica bulky. Il valore mediano di lattato deidrogenasi (LDH) era 233 U/l (intervallo: 52-2568) e il 69% dei pazienti non presentava mutazioni dei geni codificanti la porzione variabile della catena pesante delle immunoglobuline (IGHV).

La quasi totalità dei pazienti (91%) aveva una mutazione di TP53 ed il 53% presentava una del(17p); tra i 16 pazienti con del(17p) per i quali erano disponibili anche i dati di sequenziamento del TP53, 11 erano portatori di entrambe le alterazioni.

Il follow-up mediano per tutti i pazienti era di 50 mesi (intervallo: 0,1-95,9). Il 51% dei pazienti era stato trattato con ibrutinib in monoterapia, mentre la restante parte con il farmaco in associazione con un anti-CD20.

Quasi metà dei pazienti ancora in terapia con ibrutinib
A fronte di una durata mediana di terapia con ibrutinib di 46 mesi (intervallo: 0,1-95,5 mesi), le ragioni dell’interruzione del trattamento sono state la progressione di malattia (20%), la chiusura dello studio (11%), gli eventi avversi (10%), l’abbandono dello studio da parte dei pazienti (7%), il decesso (3%) e la decisione del clinico (2%). Al momento dell’analisi, quasi la metà dei pazienti (46%) era ancora in terapia con ibrutinib.

Tra i pazienti che hanno interrotto la terapia a causa della progressione di malattia, tre erano portatori sia della del(17p) sia di mutazioni di TP53, quattro avevano solo mutazioni di TP53 e per 11 non era disponibile la valutazione delle mutazioni di questo gene.

Ulteriori dati hanno mostrato una PFS mediana tra i pazienti portatori di entrambe le alterazioni di 42,8 mesi (IC al 95% da 7 mesi a non valutabile), mentre la PFS mediana non è stata raggiunta nei pazienti (47) portatori di una sola delle due alterazioni genetiche (IC al 95% da 60 mesi a non valutabile) e nell’intera coorte (IC al 95% da 67 mesi a non valutabile).

La maggior parte dei pazienti (83%) ha risposto al trattamento, con un ORR e un CR rispettivamente del 94% e 39%.

Risultati di sicurezza
In 18 pazienti si è riscontrato lo sviluppo di una neoplasia secondaria, nella maggior parte dei casi un tumore cutaneo di tipo non-melanoma (12 casi), seguito da melanoma (due casi), tumore alla prostata, mieloma plasmacellulare (un caso) e tumori non specificati (quattro casi).

Le terapie somministrate più comunemente ai pazienti andati in progressione con ibrutinib sono state venetoclax (9 pazienti), un inibitore della PI3K (due pazienti), acalabrutinib (un paziente) o la chemioimmunoterapia (cinque pazienti).

Per 63 pazienti erano disponibili dati relativi alla trasformazione di Richter, e tra questi si sono identificati due casi di trasformazione, con un periodo di latenza di 0,4 e 15,2 mesi ciascuno. Nessun paziente arruolato negli studi RESONATE-2 e ILLUMINATE è andato incontro a progressione di malattia dovuta alla trasformazione di Richter, mentre al tempo dell’analisi questi dati non erano disponibili per lo studio ECOG 1912.

Gli eventi avversi che hanno causato l’interruzione del trattamento con ibrutinib, sono stati: fibrillazione atriale (due casi), anemia (un caso), emottisi (un caso), diminuzione della conta piastrinica (un caso), polmonite (un caso), rash (un caso), shock settico (un caso) e decesso (un caso).

A un follow-up mediano di 10 mesi dopo l’interruzione del farmaco per un evento avverso, due pazienti sono deceduti in seguito a un evento avverso e un paziente è andato incontro a progressione dopo 3 anni.

In conclusione
Da questa analisi, dunque, emerge che nei pazienti con leucemia linfatica cronica con mutazioni di TP53, alterazioni genetiche che rappresentano un fattore prognostico sfavorevole, ibrutinib in prima linea migliora la sopravvivenza e mantiene una prolungata efficacia, con un buon profilo di tollerabilità.

Bigliografia
I.E. Ahn, et al. Long-term efficacy of first-line (1L) ibrutinib (Ibr) treatment after 4 years of follow-up in patients (pts) with TP53 aberrant chronic lymphocytic leukemia (CLL): a pooled analysis of 4 trials. 25th Annual International Congress on Hematologic Malignancies 2021; abstract 9.