Alberto Caviglia racconta la Shoah in Olocaustico


Alberto Caviglia racconta la Shoah a modo suo in Olocaustico: il romanzo d’esordio dello scrittore, caustico e profondo, è pubblicato da Giuntina

Alberto Caviglia racconta la Shoah in Olocaustico

E’ il 2023. David Piperno è un ventenne romano, volato a Tel Aviv dove lavora svogliatamente per il Museo di Yad Vashem. Insieme al suo coinquilino (col quale condivide anche lunghi pomeriggi sul divano a giocare alla playstation) e ad altri due bizzarri tecnici ha il compito di girare il Paese per raccogliere in video le testimonianze degli ultimi sopravvissuti dell’Olocausto. Ma il sogno di David è quello di diventare regista, girando il suo film “La lucertola mutante”.

Quando però non c’è più nessun testimone da intervistare e David e i suoi amici perdono il lavoro, il protagonista (alle prese anche con una fidanzata con cui non riesce del tutto a impegnarsi e con una madre che lo ‘tormenta’ dall’Italia) inventa un piano per farsi riassumere, insieme al resto della troupe. Un piano pericoloso, che infatti fallisce portando in trionfo a livello planetario il negazionismo della Shoah. Una catastrofe, insomma, a cui David deve porre rimedio…

E’ questa la trama di “Olocaustico” (edizioni Giuntina), romanzo d’esordio, caustico e profondo, di Alberto Caviglia che nel 2015 ha portato sul grande schermo “Pecore in erba”: anche in questa chicca cinematografica, spiega la Dire (www.dire.it), Alberto Caviglia si misura con l’antisemitismo in modo ironico e paradossale.

Il protagonista del libro si trova a combattere, fra l’altro, contro alcuni pregiudizi diffusissimi sugli ebrei. Come per esempio il loro rapporto coi soldi. C’è qualche nota autobiografica? Sono cose che hai vissuto in prima persona?

Ci sono diversi elementi autobiografici, anche se parlare di pregiudizi non è mai facile perché credo che molti di essi nella nostra società siano presenti in forma latente, a volte addirittura inconsapevole. Per questo è difficile individuarli e combatterli. Penso che un modo per farlo sia proprio attraverso l’ironia, o almeno è questo lo strumento con cui cerco di portarli alla luce per renderli più riconoscibili.

Uno dei personaggi che mi ha fatto più ridere è la mamma di David, che ha la capacità scientifica di telefonare al figlio nei momenti peggiori. Anche qui c’è qualcosa di autobiografico?

Abbastanza. Ho sempre considerato la mamma ebrea come una figura mitologica per metà composta da ansia e per l’altra metà pure… la cosa curiosa è che per molti aspetti questa figura è molto simile alla mamma italiana. Quando si sommano le due cose però, il risultato è una mamma ebrea al cubo. Insomma qualcosa di devastante…

Una delle prime cose che ho pensato leggendo il libro è che sarebbe perfetto per le scuole. Secondo te l’ironia è la chiave giusta per far conoscere ai più giovani la Shoah? Qualcuno dal mondo dell’istruzione ti ha già contattato?

Penso che usare l’ironia su temi così delicati e sensibili rappresenti un terreno inesplorato e spero avvicini le nuove generazioni a questi argomenti. Nelle ultime settimane sono stato contattato da diversi docenti e con la mia casa editrice stiamo cercando di portare il libro nelle scuole. Se ciò dovesse avvenire ne sarei davvero felice, mi piacerebbe molto confrontarmi con gli studenti che lo leggerebbero.

Affronti il tema della Shoah con ironia, ma il messaggio che vuoi mandare arriva in modo chiaro. Hai cominciato a scriverlo due anni fa (così ho letto) e a maggior ragione sembra premonitore. Pensi che la memoria sia davvero in pericolo?

Si. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento radicale delle nostre abitudini e del nostro rapporto con i mezzi di informazione… La memoria è in pericolo perché oggi creare un falso è diventato molto più facile e veloce che rintracciare la verità per poterlo contraddire. I movimenti negazionisti negli ultimi anni in Italia sono cresciuti in modo preoccupante e al momento ancora non sembra esistere un mezzo valido per affrontarli.

E’ sbagliato dire che è un romanzo anche sull’amicizia e sull’amore?

Non lo è. I compagni con cui David affronta le sue interviste ai reduci giorno dopo giorno compongono una piccola troupe, ma sono anche profondamente amici. È solo grazie a ciò che li lega che riusciranno ad affrontare un’ambiziosa impresa come quella di ristabilire la verità storica della Shoah. Anche l’amore non è secondario, nonostante David sia refrattario a legarsi alla sua fidanzata all’inizio del romanzo, l’esperienza in cui si trova coinvolto lo porta a capire molto di se stesso e a considerare Sharona con altri occhi, fino a capire quanto sia legato a lei.

Il libro non solo parla di un popolo perseguitato da sempre, ma uno dei personaggi principali è Mordechai, un senzatetto. Allora dillo che sei un buonista radical chic…

Mi hai scoperto. All’inizio il personaggio di Mordechai doveva essere un immigrato terremotato omosessuale e con l’Aids. Ma poi mi sono reso conto che tutte queste categorie si condensavano meglio in un semplice barbone ebreo…

Ok, adesso facciamo incazzare il tuo editore (questa la capisce chi ha letto il libro). Olocaustico quando diventerà un film?

Non dipende da me, ma spero che s’incazzi presto! In realtà devo riconoscere al mio editore il merito di essere stato il primo a pensare questa storia sotto forma di romanzo, e anche di essersi preso il rischio di pubblicarla. Allo stesso tempo Olocaustico è nato proprio per il cinema ed è così che l’ho sempre immaginato. Quindi sperando che qualche produttore si faccia avanti, aspetto con le dita incrociate…