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Fibrillazione atriale e aspirina: un nuovo studio

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Fibrillazione atriale: possibili benefici da assunzione di aspirina fino a 30 giorni in aggiunta a un inibitore P2Y12 e a un anticoagulante orale dopo sindrome coronarica acuta o intervento percutaneo

Tra pazienti con fibrillazione atriale (AF) che sono trattati per sindrome coronarica acuta (ACS) o sottoposti a intervento coronarico percutaneo (PCI) elettivo, è possibile che alcuni trarranno beneficio dall’assunzione – per un periodo fino a 30 giorni – di aspirina in aggiunta a un inibitore P2Y12 e a un anticoagulante orale (OAC).

È quanto suggerisce un’analisi post hoc dello studio AUGUSTUS, i cui risultati sono stati presentati all’edizione “virtuale” (online) dell’American College of Cardiology (ACC) 2020 Scientific Session (ACC.20)/World Congress of Cardiology (WCC) e pubblicati contemporaneamente online su “Circulation”.

Nel corso di questo primo mese, si è visto che la grandezza dell’aumento del sanguinamento grave con aspirina rispetto al placebo era controbilanciata dalla dimensione della diminuzione dei gravi eventi ischemici, ha riportato il primo autore dello studio, John Alexander, del Duke Clinical Research Institute di Durham, North Carolina.

Nello spazio temporale compreso fra 30 giorni e 6 mesi, tuttavia, l’aumento del sanguinamento grave con aspirina non è stato accompagnato da alcun accenno di beneficio ischemico. «Quindi l’utilizzo di aspirina fino a 30 giorni potrebbe essere ragionevole, e questi risultati dovrebbero informare il meccanismo decisionale condiviso e centrato sul paziente per quanto riguarda la durata ideale del trattamento con aspirina dopo un’ACS o un PCI in pazienti con AF che ricevono un OAC» ha sostenuto Alexander.

Nell’articolo pubblicato su “Circulation”, è inclusa inoltre un’analisi simile che esamina il rapporto rischio/beneficio con apixaban contro warfarin. L’analisi ha mostrato che «apixaban ha causato meno eventi ischemici e sanguinamenti rispetto al warfarin nei primi 30 giorni dopo ACS e/o PCI ed eventi ischemici e di sanguinamento simili o minori da 30 giorni a 6 mesi» portando gli autori a concludere che apixaban è da preferirsi rispetto a warfarin in questo contesto.

DAPT vs triplice terapia
Recenti studi che hanno esplorato la terapia antitrombotica in pazienti con AF sottoposti a PCI hanno dimostrato insieme che un duplice approccio (doppia terapia antitrombotica, DAPT) che utilizza un anticoagulante orale diretto (DOAC) e un inibitore P2Y12 fornisce un migliore equilibrio tra rischi di sanguinamento e benefici ischemici rispetto alla triplice terapia che include anche l’aspirina.

Tutti gli studi, tuttavia, hanno dimostrato che alcuni eventi ischemici, come la trombosi dello stent, si verificano a tassi numericamente più alti quando l’aspirina viene interrotta, suggerendo che almeno alcuni pazienti potrebbero trarre vantaggio dal mantenere il trattamento con aspirina un po’ più a lungo prima di passare alla doppia terapia basata sul DOAC.

I risultati di AUGUSTUS, lo studio originale
Lo studio AUGUSTUS, condotto su 4.614 pazienti, ha incluso pazienti con AF e che avevano ACS i quali erano trattati con farmaci o con PCI o erano sottoposti a una procedura PCI elettiva e per i quali erano previsti 6 mesi di terapia con inibitore P2Y12. I partecipanti sono stati randomizzati nel trial fattoriale 2 x 2 ad apixaban o warfarin e all’aspirina o al placebo. Il tempo mediano tra ACS o PCI e randomizzazione era di 6 giorni, e durante quel periodo tutti i pazienti ricevevano aspirina.

I principali risultati dello studio hanno mostrato che il sanguinamento ISTH maggiore o clinicamente rilevante non maggiore (risultato primario) è stato ridotto con apixaban rispetto a warfarin e aumentato con aspirina contro placebo.

Un endpoint finale composito di eventi ischemici non differiva in modo significativo tra i bracci aspirina e placebo, anche se l’aspirina era associata a tassi numericamente inferiori di trombosi di stent probabile/definita (0,5% contro 0,9%), infarto miocardico (2,9% vs 3,6%) e vascolarizzazione urgente (1,6% vs 2,0%). Un’analisi secondaria dello studio ha mostrato che la maggior parte delle trombosi dello stent si è verificata nei primi 30 giorni.

Alexander ha sottolineato che il compromesso tra sanguinamento e rischi ischemici nel contesto di una potente terapia antitrombotica può cambiare nel tempo a causa del rischio più pesante in prima istanza di eventi ischemici e il rischio costante di sanguinamento.

Attuale analisi post hoc, focus sul primo mese post-evento 
Gli sperimentatori hanno esplorato questa idea nello studio AUGUSTUS, in cui il 39% dei pazienti è stato sottoposto a PCI elettivo, il 37% è stato sottoposto a PCI per ACS e il 24% è stato trattato medicalmente per ACS. Ai fini di questa analisi post hoc, i ricercatori hanno creato nuovi endpoint compositi sia per il sanguinamento che per gli eventi ischemici in modo da abbinare meglio la gravità dei risultati.

La categoria grave comprendeva i sanguinamenti fatali, intracranici e ISTH maggiori e, sul lato ischemico, la morte CV, la trombosi dello stent, l’infarto del miocardio e l’ictus. La categoria intermedia aggiungeva ospedalizzazioni per sanguinamento e rivascolarizzazione urgente ai rispettivi endpoint, e la categoria ampia categoria includeva inoltre sanguinamento non maggiore clinicamente rilevante da un lato e ospedalizzazione CV dall’altro.

Nei primi 30 giorni, il sanguinamento grave è stato più frequente con aspirina contro il placebo (7,5% contro 4,0%), mentre gli eventi ischemici gravi erano meno comuni con l’aspirina (1,7% vs 2,6%). L’aumento assoluto del sanguinamento (0,97%) è stato approssimativamente pari in grandezza alla diminuzione assoluta degli eventi ischemici (0,91%).

Fra i 30 giorni e i 6 mesi, tuttavia, il “saldo” è cambiato. L’aspirina ha continuato a portare un rischio maggiore di sanguinamento grave, con una differenza assoluta dell’1,25%, ma non è stata associata a una significativa riduzione degli eventi ischemici gravi (3,8% contro 4,0%).

In ultima analisi, il messaggio-chiave dello studio è che si può interrompere l’aspirina per la maggior parte dei pazienti al momento della dimissione, ma in alcuni pazienti, se si desidera mantenerla, può essere ragionevole proseguirne l’assunzione per 30 giorni.

Quali sottogruppi di pazienti possono beneficiare dalla strategia add-on?
«Tutti i pazienti nello studio AUGUSTUS hanno ricevuto aspirina per almeno un certo periodo di tempo prima di essere randomizzati» per cui dai dati a disposizione non è possibile inferire se ci possa essere un periodo di tempo in cui l’equilibrio rischio/beneficio possa favorire l’uso di aspirina, ha sottolineato Alexander.

In effetti, ha aggiunto, sono necessari più dati anche per capire se ci sono specifiche popolazioni di pazienti che potrebbero beneficiare maggiormente dall’aggiunta di aspirina.

«Molto lavoro andrebbe compiuto nell’identificare particolari sottogruppi di pazienti, forse basandosi su caratteristiche angiografiche o altre variabili, dove si ha un trade-off differenziale tra rischio e beneficio e in cui può essere usata una terapia più personalizzata» ha concluso Alexander.

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