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Fibrillazione atriale: OAC e antipiastrinico incompatibili

Fibrillazione atriale: apixaban

Fibrillazione atriale, rischi maggiori di ictus e sanguinamento a 1 anno se all’anticoagulante orale si aggiunge un antiaggregante piastrinico

I pazienti con fibrillazione atriale (AF) di nuova diagnosi che assumono non solo un anticoagulante orale (OAC) ma anche un antipiastrinico hanno un rischio maggiore di ictus e sanguinamento a 1 anno, secondo l’analisi dei dati relativi a quasi 25.000 pazienti arruolati nel registro prospettico GARFIELD-AF. I risultati sono stati pubblicati su “JAMA Network Open”.

Dall’analisi, inoltre, emerge che l’aggiunta della terapia antipiastrinica non ha fatto registrare riduzioni della mortalità o di sindromi coronariche acute (ACS). Dato il rischio addizionale, ai pazienti affetti da AF i medici dovrebbero prescrivere un antipiastrinico in aggiunta a un OAC solamente quando vi è una valida ragione clinica, scrivono gli autori, guidati da Keith A. A. Fox, dell’Università di Edimburgo (Scozia).

«Abbiamo scoperto che 1 paziente su 8 riceve antiaggreganti piastrinici di nuova prescrizione insieme all’OAC abituale. E solo alcuni di questi soggetti hanno un’indicazione coronarica per tale prescrizione» sottolineano.

Dopo un anno, più elevata predisposizione a ictus e sanguinamento

Fox e colleghi hanno analizzato gli esiti clinici a 3 e 12 mesi, correggendo i dati per 40 covariate, tra le quali l’uso di farmaci e le comorbilità. Sul totale di 24.436 pazienti con fibrillazione atriale di nuova diagnosi, il 55% erano uomini, l’età media era di 71 anni e l’84,4% presentava un rischio di ictus da moderato a elevato (punteggio CHA2DS2-VASc =/> 2).

Nel complesso, il 12,5% stava assumendo un antipiastrinico in aggiunta a un OAC. Quelli che assumevano la doppia terapia presentavano maggiori probabilità di avere un’indicazione cardiovascolare per terapia antiaggregante piastrinica rispetto a quelli in sola terapia anticoagulante: ACS (22,0% vs 4,3%), malattia coronarica (39,1% vs 9,8%) e malattia occlusiva carotidea (4,8% vs 2,0%).

A 3 mesi, la doppia terapia era associata a esiti clinici peggiori. Entro 1 anno, i pazienti trattati con antiaggreganti piastrinici avevano una maggiore predisposizione all’ictus o al sanguinamento rispetto a quelli con prescrizione di soli OAC. Non c’era peraltro differenza nel rischio di decesso o ACS.

Risultati a 1 anno del trattamento anticoagulante con o senza antipiastrinico

Rapporto di rischio (HR)
rettificato (adj)
Intervallo di confidenza
(IC) al 95%
  Ictus  1,49 1,01-2,20
  Qualsiasi tipo
di sanguinamento 
1,41 1,17-1,70
  Mortalità  1,22 0,98-1,51
  Sindrome coronarica
acuta 
1,16 0,70-1,94

«Il nostro studio» ribadiscono in conclusione Fox e colleghi «contesta la pratica – nei pazienti con AF di nuova diagnosi – della co-prescrizione di OAC e antipiastrinici, a meno che non vi sia una chiara indicazione per l’aggiunta di questi ultimi alla terapia anticoagulante orale».

Il commento di un esperto
Nella pratica del mondo reale, una quota di pazienti con AF effettivamente riceve antiaggreganti piastrinici in aggiunta alla terapia anticoagulante, a volte anche in assenza di indicazioni cardiovascolari, conferma Benjamin A. Steinberg, elettrofisiologo dell’Università dello Utah, a Salt Lake City, non coinvolto nello studio.

Il motivo per cui ciò accade, tuttavia, è incerto, sottolinea Steinberg. I possibili motivi possono essere:

Nell’analisi del registro GARFIELD-AF ci sono comunque alcune incognite, fa notare Steinberg, ovvero i tassi di interruzione e la scomposizione in base ai farmaci specifici che sono stati assunti.

Questi aspetti, spiega, sono rilevanti in quanto «il warfarin ha un rischio maggiore di sanguinamento rispetto agli anticoagulanti orali diretti e anche i nuovi antipiastrinici inibitori del recettore dell’ADP P2Y12 – in particolare prasugrel e ticagrelor, rispetto a clopidogrel – conferiscono un rischio maggiore di sanguinamento».

Ulteriori complicazioni, aggiunge Steinberg, sono determinate dal fatto che «l’utilizzo dell’ASA è notoriamente difficile da accertare, dato che spesso i pazienti non segnalano i farmaci da banco che stanno assumendo».

Tuttavia, conclude l’esperto, i risultati sono coerenti con quelli dello studio ORBIT-AF – pubblicato su “Circulation” nel 2013 e di cui Steinberg è stato autore principale – e dovrebbero influenzare la pratica prescrittiva.

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