Dipendenza da oppiacei: in Italia 350mila casi


Dipendenza da oppiacei: in Italia 350mila casi e molti non riescono ad accedere alle cure. In arrivo farmaci più “smart”

Dipendenza da oppiacei: in Italia 350mila casi e molti non riescono ad accedere alle cure. In arrivo farmaci più "smart"

Pur in presenza di servizi e trattamenti adeguati, su 1,5 milioni di pazienti, in Europa, sofferenti da dipendenza da oppiacei, il 50% non riesce ad accedere alle cure. In Italia l’utenza arriva ai servizi con una latenza di, addirittura, otto anni. Troppo tempo perso, visto che la prognosi (vale a dire la previsione sul decorso e l’esito del quadro clinico) è legata in modo direttamente proporzionale all’accesso ai percorsi di cura: più l’intervento è precoce migliore è la prognosi.

Il motivo l’ha spiegato il responsabile del Ser.D. dell’ASL di Biella Lorenzo Somaini, nel corso del XIX Congresso della Società Italiana di Tossicologia (SITOX): «Anche se la dipendenza è classificata come disturbo mentale, è ancora percepita come devianza: esiste uno stigma sui pazienti che non facilita l’accesso alle cure. Inoltre, le terapie attuali sono orali, e richiedono l’assistenza e la frequenza quotidiana del paziente e dell’operatore. Quindi la somministrazione non è comoda».

In Italia ci sono ben 350 mila persone con dipendenza da oppiacei, di cui circa solo 140 mila in trattamento. «L’età media sta aumentando e si aggira sui 25-26 anni, con picchi che arrivano a 60 anni. È sempre più difficile intercettare i più giovani, anche se la latenza nell’ingresso nei servizi è bilanciata da una riduzione della mortalità». In Europa su 1,5 milioni di persone che sono dipendenti da oppiacei si registrano circa 7-8000 morti l’anno per overdose, assunzione di fentanil o intossicazione per associazione di oppiacei con altre droghe o alcool.

Ma c’è anche una buona notizia: è ormai questione di pochi mesi e anche in Italia arriveranno nuove terapie già in uso in Nord Europa, Australia, Canada e USA, in grado di aumentare la flessibilità di trattamento e facilitare la terapia ai pazienti.

Si tratta di formulazioni di buprenorfina a rilascio prolungato che, a differenza della formulazione attuale in compresse sublinguali, riuscirà a curare anche chi, per ragioni lavorative e personali, non riesce ad essere costante nell’assunzione: saranno microiniezioni con rilascio ritardato fino a 7 o 28 giorni, oppure microcapsule sottocutanee con rilascio ritardato fino a 6 mesi. Il principio attivo è lo stesso, ma il rilascio del farmaco è controllato e costante nelle 24 ore, facendo la differenza nell’efficacia nel contrastare la dipendenza.

«Queste nuove formulazioni sono importanti per migliorare il trattamento e la prevenzione – spiega Somaini –, inoltre miglioreranno la prognosi, soprattutto nei giovani. La speranza è che anche quel 50% di pazienti che attualmente non si rivolge ai servizi di recupero riesca a farlo, soprattutto in giovane età».

È necessario però fare una distinzione, nel classificare i pazienti che assumono oppiacei. Molti di loro, infatti, lo fanno per contrastare il dolore cronico, sotto stretto controllo medico. In questi casi, il rischio di sviluppare dipendenza è talmente basso da non giustificare la paura di prescriverli. «Dalle revisioni sistematiche della letteratura, sappiamo che il rischio riguarda il 3% della popolazione ma solo lo 0,2% di questi sono pazienti che non erano tossicodipendenti o ex tossicodipendenti» spiega il medico Claudio Leonardi, della Società Italiana Patologie da Dipendenza.

A dimostrazione del fatto che il rischio dipende dalla vulnerabilità intrinseca del soggetto alla sostanza e non dalla sostanza stessa. «Chi non è vulnerabile reagisce all’oppiaceo come a un qualsiasi altro medicinale. Diverso il caso dei soggetti vulnerabili all’effetto gratificante. Per lo più si tratta di pazienti con una storia di tossicodipendenza alle spalle. Comunque, anche in questi casi, basterebbe un attento monitoraggio del paziente per evitare un uso improprio della sostanza e scongiurare il rischio di una dipendenza».

Nonostante ciò, permane una certa reticenza nella prescrizione degli oppioidi, probabilmente per l’assenza di strumenti che permettano ai medici di capire se un paziente è vulnerabile o meno all’effetto gratificante e quindi a rischio di sviluppare una dipendenza da oppiacei.

Ma perché qualcuno è più vulnerabile agli oppiacei e qualcun altro meno? «Le aree cerebrali coinvolte sono le stesse per tutti, ma reagiscono in modo differente: nel tossicodipendente si accendono i neuroni che producono la dopamina, eurotrasmettitore che “fissa” l’effetto gratificante il quale, a sua volta, spinge la persona a ricercare continuamente la sostanza. Nei soggetti non vulnerabili, invece, questo meccanismo non si innesca, perciò la paura di una dipendenza è ingiustificata – conclude Leonardi – ammesso che il medico prescriva la dose giusta».