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Due donne e una corsa come metafora della vita

Luisa Ranieri e Fiona May ne "La Maratona di New York"

Luisa Ranieri e Fiona May ne "La Maratona di New York"

Convince il debutto dello spettacolo “La maratona di New York” al fiorentino Teatro di Rifredi. In scena l’ex campionessa olimpica Fiona May con Luisa Cattaneo, dirette da Andrea Bruno Savelli, in scena fino al 2 febbraio

Luisa Cattaneo e Fiona May ne “La maratona di New York”

Anche per la corsa vale quello che si dice del viaggio? Che cioè non sia la meta, la destinazione, ad essere importante, quanto il viaggio stesso, la fatica di gambe e polpacci, del cuore che pompa sangue e aumenta i battiti, la condivisione dell’esperienza con qualcuno? Sembra di sì, almeno stando a questa “Maratona di New York”, diretta da Andrea Bruno Savelli, prodotta dal TeatroDante Carlo Monni insieme a Todi Festival 2018, in scena al fiorentino Teatro di Rifredi fino al 2 febbraio (il 9 al Comunale di Cavriglia Ar, il 16 febbraio al Teatrodante di Campi Bisenzio).

Due amiche si allenano insieme per affrontare la corsa più celebrata del mondo, la maratona di New York, obbiettivo che appare in secondo piano e sempre più sfumato rispetto al momento della preparazione, rispetto a questo allenamento che diventa metafora dell’esistenza di queste donne. Il testo, scritto da Edoardo Erba nel 1993 per due uomini, è stato interpretato da molti attori, diventando quasi un classico del teatro, ed è stato appositamente adattato dall’autore per due donne, Eleonora e Martina, interpretate rispettivamente da Fiona May, l’atleta olimpica di salto in lungo qui prestata alla scena, dopo qualche esperienza televisiva, e da Luisa Cattaneo, che chi ama il teatro conosce come interprete di molti spettacoli di Stefano Massini e per le sue interpretazioni a fianco di Ottavia Piccolo, Franca Valeri, Gigi Proietti.

La scena è volutamente spoglia, un piano rialzato nel quale sono incassati due tapis-roulant, nascosti allo spettatore, e sul quale appare la striscia di mezzeria di una strada. Il resto lo fanno il sudore, i gemiti di fatica e le parole delle due attrici, sempre impegnate nella corsa per tutti i cinquanta minuti di durata della pièce. Si allenano nel buio, nella nebbia, per il sogno di correre la maratona americana ma anche per raccontarsi l’una all’altra, per confessarsi con le loro paure, i loro dubbi e le loro certezze. E se Eleonora è forte, determinata, la sportiva della coppia, nella scena come nella vita (“Non siamo qui per divertirci, cazzo” sprona l’amica), tanto Martina è fragile e dubbiosa, incerta quasi, e vorrebbe tornare indietro nel tempo per spaccare tutte le facce che non è riuscita a rompere dopo i torti subiti, mentre l’amica la incita ad andare avanti, a non mollare, nell’allenamento come nella vita.

La regia di Savelli lascia scorrere il testo senza costrizioni, non imbriglia le attrici più del necessario – del resto stanno recitando mentre corrono – e punta tutto sulla performance attoriale. Colonna sonora ridotta al minimo, un paio di brani di successo a scandire l’inizio e la fine e un brano strumentale a punteggiare qua e là l’azione scenica. Brava e credibile Luisa Cattaneo, che fornisce alla sua Martina la giusta dose di dubbi e incertezze, di umanità verrebbe da dire, mentre risulta più acerba la May, certo a suo agio nel ruolo di donna sportiva e determinata, che però sembra un pò sovrastata dal personaggio, e paradossalmente tra le due risulta la meno autentica.

E così minuto dopo minuto, falcata dopo falcata si passano in rassegna le vecchie ferite, il rapporto con Dio, i tradimenti, mentre la stanchezza aumenta, e anche la velocità. A scandire chilometri e parole ci sono i minuti di corsa, le tappe di un viaggio a ritroso, alla ricerca del tempo perduto: 8, 10, 22, 48, 59. I ruoli tra le due poi sembrano ribaltarsi. con Martina che corre sempre più veloce, dritta e spedita alla meta, non riesce a fermarsi, mentre Eleonora rallenta, è sempre più in affanno e alla fine si ferma, lasciando l’amica a quello che sembra il suo ultimo viaggio (“stai andando da Dio, non pensare ad altro”), mentre si scopre che in realtà non si è mai mossa da casa. L’ultima corsa insomma, quella per congedarsi dall’esistenza, liberandosi da angosce e rimpianti, dal peso del passato, celebrando il mito di Fidippide, che dopo la celebre corsa di quaranta chilometri, pronunciata la frase “abbiamo vinto”, si accasciò, ucciso dalla fatica.

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