Italiani in cerca di lavoro: la Svizzera non è il Paradiso


La lettera-denuncia di un giovane che ha provato a lasciare l’Italia per cercare fortuna nel Canton Ticino

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Ha fatto discutere nei mesi scorsi il referendum anti frontalieri della Svizzera

ROMA – Il numero dei giovani italiani che lasciano la Penisola per trovare un lavoro è in costante aumento. Un fenomeno esploso in seguito alla crisi economica, che ha costretto parte di una generazione, quella dei trentenni di oggi, a fare le valigie per cercare un’opportunità all’estero.

Stati Uniti o Europa poco cambia, perché la cosiddetta “fuga dei cervelli” pare inarrestabile. Ma non è tutto oro quel che luccica: accanto a storie di successo, ce ne sono altre segnate dalle difficoltà lontano dalla propria terra.

Alla nostra redazione è arrivata una testimonianza di un 33enne, che ha deciso di emigrare in Svizzera: una storia accomunabile a quella di altre migliaia di persone attualmente nella stessa situazione.

Ecco il testo della lettera che Gaspare, questo il nome, ci ha inviato.

Sono un italiano: fin qui, nessuna colpa. Appartengono alla “classe 1984”: nemmeno questa una colpa. Una “sfiga” forse si: quella di appartenere ad una generazione di mezzo, quella generazione “Y” nata a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90: né “figli dei fiori” (per lo più “figli di papà” in lotta per superbi ideali, almeno finché non entrati in banca o ottenuto un posto fisso); né figli della globalizzazione (svezzati a pane e smartphone e quanto mai “cittadini del mondo”). Una generazione “ibrida” cresciuta in un mondo jurassico ormai estinto, dopato da un benessere diffuso e indottrinato dal mito della crescita felice.

Studia e farai strada”, dicevano in tanti; “una laurea in Legge è meglio di un’assicurazione sulla vita”, aggiungevano altri. Ed eccomi qui, a 33 anni, crocifisso dal mercato del lavoro, con una Laurea (cum Laude) in tasca e tanti sogni in un cassetto che non si aprirà mai… Il miraggio resta sempre lo stesso: né la fama, né il successo, né la ricchezza, nemmeno il famigerato “posto fisso”… Semplicemente un lavoro, un dignitosissimo lavoro, che consenta finalmente di esclamare: “ce l’ho fatta!”.

Una doverosa puntualizzazione – per tutti i tastieristi seriali pronti a sparare giudizi come sentenze -: non datemi del “choosy” o “kippers” o “neet”, per favore! In primis, perché odio l’esterofilia imperante: quantomeno usiate un epiteto nostrano (“sfaticato”, “fannullone”…); in secundis, poiché non mi sono di certo adagiato sugli allori. La laurea è stata un traguardo raggiunto dopo anni di fuori corso, ma al costo di mantenersi a tutti i costi da solo, alternando lavoretti in nero e tirocini “aggratis” (anzi, a proprie spese): per definire al meglio la mia posizione, conierei il neologismo di “diversamente occupato”!

Dimenticavo: oltre ad esser figlio degli anni ’80, sono un figlio del Sud: la medaglia al petto di “sfigato”, dunque, me la sono meritatamente conquistata! Cosa vuol dire, per un giovane -non raccomandato e senza un’impresa di famiglia alle spalle- cercare lavoro al Sud? Il più delle volte, un gioco al lotto: con la differenza, in questo caso, di giocare sulla propria pelle! Arrivati al primo bivio della propria vita (i trent’anni), così, è facile voltarsi indietro ed accorgersi di aver sprecato i propri anni migliori tra cumuli di libri e lavoretti eternamente precari, temporanei, a scadenza… Il prezzo necessario da pagare per non essere scavalcati da chi gioca al rialzo nella disperazione!

Si superano i trent’anni, poi, e si scopre d’improvviso di esser troppo presto invecchiati per il mondo del lavoro: bonus a go-go per l’assunzione di under-29, con buona pace per chi non è né tanto giovane né tanto vecchio! Allora ci si ributta nuovamente a capofitto negli studi, preparandosi per un concorso pubblico. Peccato che, eliminati tutti quelli per i quali vige il solito dolente limite d’età, di corposi ne restano ben pochi. E quando per mesi ti prepari per uno dei pochi concorsi a cui aspirare (si veda quello per Assistenti Giudiziari), ti ritrovi a tirare le somme con altri 300 mila candidati per poche centinaia di posti!

Giunge inesorabile, così, il momento di pensare alla fuga, a scappare all’estero! Quale meta migliore della vicinissima Svizzera (e dell’italianissimo Canton Ticino)? Ripensi ai tanti che ce l’hanno fatta, trovando la loro fortuna tra la Svizzera, il Belgio e la Germania, e molli tutto -gli affetti e le amicizie di una vita- per partire, pronto a sfidare la sorte per un tozzo di pane.

Passano i mesi, e ti rendi però conto che il Paradiso non è di questa Terra… Cerchi un lavoro attinente ai tuoi studi? Ben presto ti accorgi che qui la tua laurea è fondamentalmente “carta straccia”! Cerchi un qualsiasi lavoro, pur umilissimo, che ti permetta di vivere dignitosamente? Nella migliore delle ipotesi, qualora non si richieda il Tedesco Madrelingua (un’oscenità per qualsiasi italiano medio!), o uno dei tanti attestati federali immaginabili (anche per un posto di lavapiatti!) o un permesso di soggiorno (un miraggio senza prima un contratto in mano…), ti rispondono: “ma lei è sprecato per questa posizione…”.

Col morale a terra, continui ancora a cercare la tua strada, tra cartelloni pubblicitari che raffigurano gli italiani come “ratti” e, un po’ ovunque, giornali che sfoggiano titoli a tutta pagina del tipo “Costretti ad emigrare!” (riferiti, stavolta, ai Ticinesi, a causa dell’immigrazione italiana). Sconfortato, sull’orlo di una crisi di nervi, chiudi gli occhi, e ti accorgi di vivere con un pugno di mosche in mano… ma un tesoro inestimabile attorno: la tua Famiglia, gli affetti più cari, sempre al tuo fianco, comunque pronti a sorreggerti. Ed è in questi momenti che un dilemma, come una preghiera, ti scuote brutalmente la coscienza: si può certamente vivere “per” la Famiglia; ma fin quando si può sopravvivere “di” Famiglia???”.