Dai fiori colombiani alle conserve cinesi: sugli scaffali il frutto del caporalato


Rapporto ‘Best Practices against Work Exploitation in Agriculture’: dati choc sui prodotti che importa l’Unione europea

caporalato italia unione europea
Il caporalato è un fenomeno a livello globale

ROMA – Dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall’ortofrutta sudamericana a quella africana come le arance dall’Egitto, gli scaffali dei supermercati dell’Unione Europea sono invasi dalle importazioni di prodotti extracomunitari ottenuti dal caporalato spesso anche grazie alle agevolazioni a dazio zero. È quanto afferma la Coldiretti in riferimento al rapporto ‘Best Practices against Work Exploitation in Agriculture’, realizzato dal Milan Center for Food Law and Policy in collaborazione con Coop e presentato al Parlamento europeo.

Riso, conserve di pomodoro, olio d’oliva, ortofrutta fresca e trasformata, zucchero di canna, rose, olio di palma sono solo alcuni dei prodotti stranieri che arrivano in Europa ed in Italia che sono spesso il frutto di un caporalato invisibile che passa inosservato solo perché avviene in Paesi lontani, dove viene sfruttato il lavoro minorile. Un fenomeno che riguarda in agricoltura circa 100 milioni di bambini secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di operai sottopagati e sottoposti a rischi per la salute, di detenuti o addirittura di veri e propri moderni “schiavi”.

E tutto questo accade nell’indifferenza delle istituzioni nazionali ed europee che anzi spesso alimentano di fatto il commercio dei frutti del caporalato con agevolazioni o accordi privilegiati per gli scambi che avvantaggiano solo le multinazionali.

Le conserve cinesi e i laogai

Un esempio è rappresentato dalle importazioni di conserve di pomodoro dalla Cina al centro delle critiche internazionali per il fenomeno dei laogai, i campi agricoli lager che secondo alcuni sarebbero ancora attivi, nonostante l’annuncio della loro chiusura.

Nel 2016 sono aumentate del 43% le importazioni in Italia di concentrato di pomodoro dal Paese asiatico che hanno raggiunto circa 100 milioni di chili, pari a circa il 10% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente. In questo modo, c’è il rischio concreto che il concentrato di pomodoro cinese, magari coltivato da veri e propri “schiavi moderni”, venga spacciato come made in Italy sui mercati nazionali ed esteri per la mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta la provenienza.

Un problema che riguarda anche il riso straniero i cui arrivi in Italia hanno raggiunto il record nel 2016, con una vera invasione da Oriente da cui proviene quasi la metà delle importazioni secondo il Rapporto Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.

L’aumento varia dal +489% per gli arrivi dal Vietnam al +46% dalla Thailandia per effetto dell’introduzione da parte dell’UE del sistema tariffario agevolato per i Paesi che operano in regime EBA (Tutto tranne le armi) a dazio zero. Un regalo alle multinazionali del commercio che sfruttano gli agricoltori locali, i quali subiscono peraltro lo sfruttamento del lavoro anche minorile e danni sulla salute e sull’ambiente provocati dall’impiego intensivo di prodotti chimici vietati in Europa.

Le nocciole turche e lo zucchero di canna: export “nero”

Rilevanti sono anche le importazioni di nocciole dalla Turchia sulla quale pende l’accusa per lo sfruttamento del lavoro delle minoranze curde, ma il problema dello sfruttamento riguarda anche le rose dal Kenya per il lavoro sottopagato e senza diritti, i fiori dalla Colombia dove è stato denunciato lo sfruttamento del lavoro femminile o la carne dal Brasile dove è stato denunciato il lavoro minorile.

Le banane sono il terzo frutto più consumato in Italia, ma su quelle che vengono dall’Ecuador sono stati segnalati trattamenti chimici fuorilegge in Europa, mentre lo zucchero di canna, divenuto di gran moda, viene ottenuto in Bolivia in piantagioni dove si segnala l’abuso di stimolanti per aumentare la resistenza al lavoro. Ma ci sono trattative in corso anche per i prodotti frutticoli con i Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay) dove non ci sono le stesse norme di tutela di lavoro vigenti in Italia.

L’Argentina, che è nella lista nera del dipartimento di Stato americano per lo sfruttamento del lavoro minorile nelle coltivazioni di aglio, uva, olive, fragole, pomodori, ha aumentato le esportazioni di prodotti ortofrutticoli in Italia del 17% nel corso del 2016. O ancora l’Egitto con le importazioni di ortofrutta in Italia che sono aumentate del 20% nel 2016 rispetto all’anno precedente raggiungendo i 100 milioni di euro.

Le fragole dell’Egitto sono indicate dal sistema di allarme rapido UE (RASFF) tra i cibi più contaminati per residui chimici, con le melagrane che superano i limiti in un caso su tre (33%). Ma fuori norma dal Paese africano sono anche l’11% delle fragole e il 5% delle arance che arrivano peraltro in Italia grazie alle agevolazioni concesse dall’Unione europea. Un pericolo per la salute dei consumatori, ma anche degli agricoltori locali spesso vittime di caporalato.

Un caso a parte è quello delle importazioni di olio di palma ad uso alimentare che in Italia sono più che raddoppiate negli ultimi 20 anni raggiungendo nel 2016 circa 500 milioni di chili. Uno sviluppo enorme che sta portando al disboscamento di vaste foreste senza dimenticare l’inquinamento provocato dal trasporto a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di produzione e naturalmente le condizioni di sfruttamento del lavoro delle popolazioni locali private di qualsiasi diritto.

“Non è accettabile che alle importazioni sia consentito di aggirare le norme previste in Italia dalla legge nazionale sul caporalato ed è necessario, invece, che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri a tutela della dignità dei lavoratori, garantendo che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un percorso di qualità che riguarda l’ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore a sostegno di un vero commercio equo e solidale”, ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo.