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Osteoporosi indotta da glucocorticoidi, come gestire il “rebound” dopo denosumab

Gli adulti con diabete di tipo 1 da almeno 25 anni hanno una densità minerale ossea (BMD) areale inferiore rispetto a quelli senza diabete

Osteoporosi: la sospensione del denosumab nei pazienti trattati con glucocorticoidi (GC) rappresenta un momento clinico delicato

La sospensione del denosumab nei pazienti trattati con glucocorticoidi (GC) rappresenta un momento clinico delicato. È infatti noto che l’interruzione di questo anticorpo monoclonale, ampiamente utilizzato nella gestione dell’osteoporosi (OP), può indurre un rapido “rebound” del turnover osseo, con conseguente aumento del rischio di fratture.
(Ndr: per “rebound” si intende il rapido e marcato aumento del turnover osseo che può verificarsi dopo la sospensione del denosumab, caratterizzato da un’intensa riattivazione del riassorbimento osseo e associato a un incremento del rischio di fratture, soprattutto vertebrali).

Nonostante l’indicazione generale a introdurre tempestivamente un bisfosfonato (BSF) dopo l’ultima iniezione di denosumab, rimane una sostanziale incertezza sulle differenze tra le strategie disponibili e, in particolare, sull’impatto del timing di somministrazione.
Un nuovo studio multicentrico presentato dal dott. Giovanni Adami (Università di Verona) al congresso annuale dell’American College of Rheumatology ha esaminato in modo sistematico questi aspetti, confrontando tre approcci terapeutici: alendronato orale, zoledronato endovena somministrato precocemente e zoledronato somministrato in modalità ritardata.

Razionale e obiettivi
Il razionale dello studio nasce da una doppia considerazione clinica. I pazienti in terapia cronica con GC presentano un rischio intrinsecamente elevato di fratture e spesso utilizzano denosumab per periodi più brevi rispetto ad altre popolazioni. Per questo, il momento della sua sospensione risulta particolarmente critico.

Le linee guida raccomandano l’impiego tempestivo di un BSF per prevenire il “rebound” del riassorbimento osseo, ma mancano evidenze robuste che identifichino la strategia ottimale per questa categoria di pazienti, così come non è chiaro se via di somministrazione e tempistica influiscano in modo differenziato sulla prevenzione dell’aumento del turnover.

L’obiettivo principale del trial è stato quindi valutare come tre strategie post-denosumab – alendronato orale settimanale, zoledronato endovena a 6 mesi e zoledronato endovena a 9 mesi – incidano sui marker di turnover osseo, con particolare attenzione al CTX, endpoint primario dello studio. Obiettivi secondari erano le variazioni di P1NP e i cambiamenti della densità minerale ossea (BMD) a livello di rachide lombare, anca e collo femorale durante 12 mesi di follow-up.

Disegno dello studio
Lo studio, un trial clinico multicentrico, open-label, randomizzato e a gruppi paralleli, è stato condotto presso due centri accademici: l’Università di Verona e la University of Alabama a Birmingham. In totale sono stati arruolati 45 pazienti, tutti con esposizione documentata ad almeno due dosi di denosumab 60 mg e in terapia con prednisone ≥7,5 mg/die.

I partecipanti sono stati randomizzati, secondo uno schema 1:1:1 ad uno dei tre gruppi di trattamento seguenti:
Alendronato orale (ALN): 70 mg/settimana per 6 mesi, iniziati a 6 mesi dall’ultima dose di denosumab
Zoledronato precoce (Early ZA): una singola infusione da 5 mg, a 6 mesi dall’ultima dose
Zoledronato ritardato (Late ZA): una singola infusione da 5 mg, a 9 mesi dall’ultima dose.

La popolazione era eterogenea ma equilibrata tra i gruppi, con età media tra 58 e 67 anni e una prevalenza di individui di sesso femminile compresa tra il 64% e il 75%.
Tutti i partecipanti presentavano una patologia reumatica in corso e un T-score ≤ -1 alla colonna lombare, anca in toto o collo femorale.
L’endpoint primario era rappresentato dalla variazione del CTX a 6 mesi dalla randomizzazione.

Risultati principali
Dall’analisi dei dati è emerso che il gruppo Late ZA presentava un aumento significativo di CTX a 3 mesi rispetto ad ALN (p=0,02) (fenomeno definito “escape del turnover osseo”), mentre le differenze a 6 mesi non hanno raggiunto la significatività statistica.

Sul fronte della BMD, alcuni segnali favorevoli per il gruppo Late ZA sono emersi a 6 mesi, ma a 12 mesi l’unico confronto statisticamente significativo è stato tra Late ZA e ALN (p=0,04) al rachide lombare, con un beneficio comunque limitato e non confermato a livello dell’anca in toto.

Il dato più rilevante dello studio è stato l’osservazione di un escape del turnover osseo (NdR: ripresa inattesa e anomala del turnover osseo nonostante la somministrazione del BSF, con aumento dei marker di riassorbimento – come il CTX – che indica una temporanea perdita di controllo dell’attività osteoclastica) nel gruppo trattato con zoledronato somministrato in modo ritardato (Late ZA): un aumento marcato del CTX a 3 mesi che potrebbe delineare un periodo di vulnerabilità per il paziente, potenzialmente associato ad un incremento del rischio di fratture.

Anche se questo incremento del turnover sembra accompagnarsi ad un guadagno comparativamente maggiore della densità minerale a 6 mesi, il vantaggio non appare sostenuto nel lungo periodo, né clinicamente sostanziale.

Per quanto riguarda i marker di formazione ossea, come il P1NP, lo studio non evidenzia differenze particolarmente rilevanti: i loro andamenti seguono traiettorie previste, più stabili nel gruppo ALN e leggermente più variabili nei due gruppi trattati con ZA. Per questo motivo, il focus interpretativo rimane centrato principalmente sul CTX, che fornisce la chiave di lettura più immediata del rischio di rebound.

Interpretazione dei dati
Se si osservano i tre approcci nel loro insieme, emerge un quadro molto chiaro: l’ALN si conferma un’opzione stabile e prevedibile: non presenta picchi di turnover, mantiene i marker in un range controllato e non genera sorprese clinicamente rilevanti.

Anche lo zoledronato somministrato precocemente (Early ZA), a sei mesi, si comporta in modo equilibrato: non espone il paziente all’escape del turnover osservato con la somministrazione ritardata, né mostra vantaggi eclatanti in termini di densità minerale ossea, ma evita comunque le criticità associate al ritardo della dose.

Il gruppo Late ZA, invece, pur mostrando un piccolo vantaggio di BMD alla colonna lombare, risulta l’unico ad avere un segnale di rischio legato all’aumento precoce e marcato del CTX. In sostanza, un potenziale beneficio tardivo (sulla BMD) si accompagna ad un rischio anticipato di frattura che potrebbe non essere accettabile nei pazienti già fragili e ad alto rischio, come quelli trattati con GC.

Riassumendo
Il confronto tra le tre strategie suggerisce, pertanto, che il timing dell’intervento con BSF gioca un ruolo cruciale nella modulazione della risposta ossea dopo la sospensione del denosumab nei pazienti in terapia glucocorticoidea.
La somministrazione tardiva di ZA (Late ZA) non sembra rappresentare la strategia migliore, perché non riesce a “coprire” adeguatamente l’aumento del turnover osseo che si verifica dopo la sospensione del denosumab.

Al contrario, ALN e zoledronato precoce (Early ZA) appaiono strategie più sicure, e il primo, in particolare, si distingue per stabilità e prevedibilità degli effetti.

Gli autori sottolineano, comunque, che il campione di studio è relativamente piccolo e che saranno necessari studi più ampi per definire con maggiore precisione quale sia l’approccio ottimale in questa popolazione complessa e ad alto rischio.

Bibliografia
Adami G et al. Denosumab Discontinuation and Switching in Glucocorticoid-Induced Osteoporosis: A Multi-site Randomized Clinical Trial [abstract]. Arthritis Rheumatol. 2025; 77 (suppl 9). https://acrabstracts.org/abstract/denosumab-discontinuation-and- switching-in-glucocorticoid-induced-osteoporosis-a-multi-site-randomized-clinical-trial/.

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