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Epatite Delta: una sfida ancora aperta per la medicina moderna

Una nuova revisione di studi clinici controllati analizza le strategie migliori per la prevenzione della trasmissione verticale dell'epatite B

L’epatite delta (HDV) rappresenta una minaccia globale sottovalutata, con stime che variano da 12 a 72 milioni di persone infette

L’epatite delta (HDV) rappresenta una minaccia globale sottovalutata, con stime che variano da 12 a 72 milioni di persone infette. Associata all’epatite B, l’infezione da HDV accelera la progressione verso cirrosi, insufficienza epatica e carcinoma epatocellulare. Nonostante la disponibilità di screening anticorpale, il test sistematico rimane insufficiente. Nuovi trattamenti come la bulevirtide e farmaci emergenti come il lonafarnib offrono speranza, ma resta urgente sviluppare terapie efficaci di nuova generazione. E’ quanto evidenzia una recente review pubblicata su Pathogens.

Virus piccolo ma pericoloso
L’epatite delta è stata scoperta nel 1977 in Italia da Rizzetto e colleghi, durante studi sul virus dell’epatite B. Virus simili sono stati identificati anche in animali e persino in invertebrati, suggerendo che HDV abbia origini evolutive antiche. Classificato nel genere deltavirus della famiglia Kolmioviridae, HDV è un virus “satellite”, incapace di replicarsi senza il supporto del virus dell’epatite B (HBV). La ricerca recente ha permesso di comprendere meglio il ciclo vitale del virus e di sviluppare strategie terapeutiche innovative, cruciali per la gestione clinica e per indirizzare nuove linee di ricerca.

Struttura, replicazione e dipendenza dall’HBV
HDV è il virus umano più piccolo (35–37 nm) e necessita di HBV per entrare nelle cellule epatiche e produrre nuove particelle virali. Il virione è composto da un involucro lipidico contenente antigeni di superficie HBV (L-HBsAg, M-HBsAg e S-HBsAg) e da un nucleocapside con RNA circolare a singolo filamento e antigeni delta (HDAg). L’ingresso nelle cellule epatiche avviene tramite interazioni con proteoglicani della superficie cellulare e il recettore NTCP, fondamentale per il trasporto degli acidi biliari. Una volta all’interno, l’RNA virale è trasportato nel nucleo, dove la replicazione dipende dagli enzimi dell’ospite. HDV utilizza due forme di HDAg: la forma piccola (S-HDAg) promuove la replicazione, mentre la forma grande (L-HDAg) ne regola l’assemblaggio, permettendo la produzione di virioni infettivi solo in presenza di HBsAg. Questa stretta dipendenza da HBV rende HDV particolarmente insidioso e difficile da trattare.

Epidemiologia e trasmissione globale
Secondo l’OMS, circa il 5% dei pazienti HBV-positivi nel mondo, oltre 14 milioni di persone, sono anche infetti da HDV. Tuttavia, le stime variano da 12 a 72 milioni. L’HDV non segue necessariamente la distribuzione geografica dell’HBV: aree come la Groenlandia e il bacino amazzonico mostrano alta prevalenza nonostante bassa endemia HBV. La vaccinazione contro l’HBV ha ridotto l’incidenza nelle nuove generazioni, ma l’immigrazione da regioni endemiche mantiene elevata la circolazione del virus. Otto genotipi di HDV circolano nel mondo, con genotipo 3 particolarmente virulento in Amazzonia, mentre la trasmissione avviene principalmente per via parenterale. La coinfezione con HBV può provocare epatite acuta autolimitante, mentre la superinfezione in individui già HBV-positivi porta frequentemente a epatite cronica, con un rischio aumentato di cirrosi, carcinoma epatico e mortalità.

Diagnosi e sfide terapeutiche
La diagnosi precoce è ostacolata dall’accesso limitato ai test HBV e HDV. L’OMS raccomanda uno screening universale nei pazienti HBsAg-positivi, seguito dal test HDV RNA in caso di positività. Attualmente, la terapia standard con interferoni alfa e peginterferoni ha una risposta sostenuta solo nel 30% dei casi, con frequenti recidive. Nuove opzioni terapeutiche, come bulevirtide e lonafarnib, hanno mostrato risultati promettenti, ma l’efficacia clinica a lungo termine resta da confermare. L’obiettivo ideale rimane la clearance dell’HBsAg, un traguardo difficile da raggiungere, e la necessità di farmaci di nuova generazione è più urgente che mai.

Nuove Strategie Terapeutiche Basate su Piccole Molecole

Bulevirtide
Bulevirtide rappresenta oggi l’unico farmaco formalmente approvato per l’epatite delta cronica. Approvato dall’Agenzia Europea del Farmaco nel 2020, è un peptide in grado di bloccare l’ingresso di HBV e HDV negli epatociti interferendo con il recettore NTCP. Studi clinici, come MYR301, hanno dimostrato che la monoterapia a lungo termine migliora i livelli di HDV RNA e normalizza gli enzimi epatici, sebbene l’impatto sull’HBsAg sia minimo. La combinazione con peginterferone alfa-2a o analoghi nucleosidici, studiata nei trial MYR204 e MYR202, aumenta l’efficacia, suggerendo un effetto sinergico tra il blocco dell’ingresso virale e l’inibizione della replicazione intracellulare. Gli eventi avversi sono generalmente lievi, ma il monitoraggio dei livelli di acidi biliari è raccomandato in terapie prolungate.

Bulevirtide inibisce la diffusione extracellulare della propagazione dei virioni dipendenti da HBsAg, mentre l’interferone inibisce la propagazione indipendente da HBsAg mediata dalla divisione cellulare, probabilmente spiegando il sinergismo terapeutico osservato. Il trattamento con bulevirtide riduce fortemente i livelli intraepatici di RNA dell’HDV, la proporzione di epatociti infettati da HDV e il livello di viremia, senza ridurre i livelli intraepatici di HBV. Ciò sembra essere sufficiente a diminuire i segni di infiammazione epatica osservati nel trattamento a lungo termine con bulevirtide, suggerendo che il blocco dell’ingresso virale migliori i segni di infiammazione del fegato e che regimi terapeutici prolungati possano portare all’eradicazione dell’HDV in una parte dei pazienti. Questi risultati forniscono una importante prova di concetto che costituirà la base per la progettazione di strategie terapeutiche e terapie combinate negli individui con epatite cronica delta.

Lonafarnib
Lonafarnib è un inibitore della farnesil-transferasi che blocca la prenilazione necessaria all’assemblaggio di HDV. Studi preliminari e combinazioni con ritonavir e peginterferone hanno mostrato significative riduzioni di HDV RNA, con effetti collaterali principalmente gastrointestinali. I dati dei trial di fase 3 confermano un buon profilo di sicurezza e l’ottimizzazione dei dosaggi promette efficacia maggiore, soprattutto in associazione con interferone. Tuttavia, l’impatto sui livelli di HBsAg rimane limitato.

Terapie a base di acidi nucleici e anticorpi monoclonali
Nuove strategie includono polimeri degli acidi nucleici (NAPs), siRNA e oligonucleotidi antisenso (ASO), capaci di ridurre la produzione di HBsAg e modulare la risposta immunitaria. REP 2139 e JNJ-3989 hanno mostrato una riduzione significativa di HDV RNA e HBsAg, con miglioramenti biochimici sostenuti. Gli anticorpi monoclonali, come tobevibart, brelovitug e libevitug, impediscono l’ingresso virale e neutralizzano HDV, evidenziando potenzialità in combinazione con altre terapie per ottenere una maggiore soppressione virale.

Trapianto epatico
Nei casi di malattia epatica avanzata, il trapianto rimane l’opzione terapeutica. I pazienti con cirrosi da HDV sono spesso più giovani e progrediscono rapidamente verso insufficienza epatica. La profilassi combinata con analoghi nucleosidici e immunoglobuline anti-HBs riduce drasticamente il rischio di reinfezione dell’organo trapiantato, assicurando tassi di sopravvivenza a 5 anni intorno all’88%.

In conclusione, gli autori evidenziano che l’epatite delta è una malattia silenziosa ma grave, sottodiagnosticata e complessa da trattare. Screening universale e strategie terapeutiche innovative rappresentano le principali armi per affrontare questa minaccia globale. Il progresso nella ricerca clinica e farmacologica offre speranza, ma la piena comprensione dell’HDV e la disponibilità di cure efficaci rimangono una sfida cruciale per la medicina moderna.

Vitor Duque et al., Hepatitis Delta Virus Infection: An Overview Pathogens. 2025 Sep 6;14(9):899.
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