Cura dell’epatite C: una quota non trascurabile di pazienti continua a ospitarla in forma occulta nelle cellule immunitarie
Nonostante le terapie antivirali ad azione diretta abbiano rivoluzionato la cura dell’epatite C, eliminando il virus dal sangue nella quasi totalità dei pazienti, una quota non trascurabile continua a ospitarlo in forma occulta nelle cellule immunitarie. Uno studio pubblicato su Scientific Reports dimostra che circa un paziente su dieci presenta ancora tracce di HCV dopo la guarigione, connessi a particolari profili genetici e immunologici, suggerendo la necessità di un monitoraggio più attento nel tempo.
Infezione occulta da HCV: un nemico invisibile
L’epatite C è una malattia virale che può portare a cirrosi e carcinoma epatocellulare, ma negli ultimi anni i ricercatori hanno scoperto che i suoi effetti non si limitano al fegato. L’infezione da HCV è infatti una condizione sistemica, capace di coinvolgere anche cellule del sistema immunitario, il midollo osseo e perfino il sistema nervoso centrale. In questo contesto si inserisce l’infezione occulta da HCV (OCI), definita dalla presenza del materiale genetico del virus negli epatociti e/o nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC), senza che vi sia traccia di HCV-RNA nel plasma o nel siero.
Questo significa che un paziente può risultare clinicamente guarito secondo gli esami standard, ma continuare a ospitare il virus in forma latente. L’OCI non è un fenomeno raro: è stata descritta fino nel 70% dei pazienti che hanno eliminato spontaneamente l’infezione acuta e in circa il 10% dei soggetti trattati con terapie interferoniche tradizionali. Anche nella popolazione generale, l’OCI è stata riscontrata nel 2-3% degli individui apparentemente sani e dei donatori di sangue. Sebbene spesso asintomatica, questa forma di infezione può favorire infiammazione cronica, progressione della fibrosi e possibili riattivazioni virali, con implicazioni ancora tutte da chiarire per la salute a lungo termine.
Lo studio: persistenza virale dopo i nuovi antivirali
L’avvento degli antivirali ad azione diretta (DAA) ha rappresentato una svolta epocale: queste molecole bloccano specifici enzimi virali (proteasi, polimerasi e proteina NS5A) e hanno reso la terapia più breve, meno tossica e altamente efficace, con tassi di risposta virologica sostenuta (SVR) superiori al 90%. Tuttavia, raggiungere la SVR non equivale sempre a eliminare completamente il virus.
Uno studio condotto su 97 pazienti trattati con DAA ha mostrato che, sebbene tutti avessero ottenuto la SVR, in circa il 9% dei casi l’HCV-RNA era ancora rilevabile nelle PBMC. Risultati simili, con percentuali comprese tra il 4 e il 15%, erano già stati segnalati da altre ricerche, confermando la natura non rara del fenomeno.
Un dato particolarmente interessante è emerso dall’analisi genetica: in due terzi dei pazienti con OCI, il genotipo virale predominante cambiava dopo il trattamento, passando da 1b a varianti come 3a o 4a/d. Questo non rappresentava una reinfezione, ma la “sopravvivenza” di ceppi minoritari presenti già prima della terapia, meno sensibili alla combinazione di farmaci utilizzata. In sostanza, i DAA eliminavano il ceppo dominante, ma lasciavano spazio a varianti più resistenti. Questo mette in evidenza la straordinaria capacità di adattamento dell’HCV e la complessità delle sue quasispecie.
Immunità ed esaurimento cellulare: il ruolo del sistema immunitario
La ricerca non ha evidenziato associazioni tra la comparsa di OCI e variabili cliniche classiche come età, sesso, BMI, grado di fibrosi o precedenti trattamenti. Sono emersi invece due fattori cruciali: una carica virale pre-trattamento più bassa e una ridotta espressione del recettore Tim-3 (T-cell immunoglobulin and mucin domain-containing protein 3) sui linfociti CD8+. Tim-3 è un marcatore tipico delle cellule T “esauste”, che durante le infezioni croniche perdono progressivamente capacità citotossica e di produzione di citochine.
Nei pazienti con OCI, la scarsa espressione di Tim-3 suggerisce un sistema immunitario meno stimolato e quindi meno incline a sviluppare meccanismi di esaurimento, con il paradossale risultato di un’eliminazione meno efficace del virus. Questo dato conferma che la persistenza occulta non dipende solo dalle caratteristiche del virus, ma anche dal profilo immunologico dell’ospite.
Inoltre, i pazienti che riuscivano a eradicare l’HCV dalle PBMC mostravano una netta riduzione di marcatori immunoregolatori come IL-10, sPD-1, sTim-3 e sLAG-3, segno di una normalizzazione della risposta immunitaria. Nei pazienti con OCI, invece, questo calo non veniva osservato. Pur con i limiti di un campione ridotto, i risultati indicano che le differenze immunologiche preesistenti potrebbero costituire un fattore predittivo di persistenza virale.
Prospettive cliniche e necessità di sorveglianza
L’OCI rimane una condizione clinicamente enigmatica: nella maggior parte dei casi non dà sintomi, né determina un aumento evidente degli enzimi epatici. Tuttavia, è stata associata a progressione della fibrosi, fenomeni infiammatori cronici e potenziale rischio di carcinoma epatocellulare (HCC), che può svilupparsi anche dopo SVR. Alcuni studi hanno persino dimostrato che il virus occulto può infettare linfociti umani in vitro, sollevando interrogativi sul rischio di trasmissibilità.
La diagnosi di OCI è complessa: il metodo più sensibile resta la rilevazione di HCV-RNA nel tessuto epatico, ma la biopsia non è praticabile in studi di routine. Per questo motivo, il test sulle PBMC viene considerato un buon compromesso, con una concordanza stimata attorno al 70% rispetto all’analisi epatica.
Le limitazioni dello studio, come la mancanza di follow-up a lungo termine e l’impossibilità di stabilire se i frammenti virali rilevati siano ancora replicanti, impongono cautela nell’interpretazione dei risultati. Tuttavia, il messaggio è chiaro: raggiungere la SVR non significa abbassare del tutto la guardia. La presenza di un’infezione occulta suggerisce la necessità di monitoraggi più estesi, includendo anche le PBMC, e di strategie di sorveglianza prolungata nei pazienti dichiarati guariti.
Conclusioni
L’infezione occulta da HCV rappresenta una sfida emergente per la gestione clinica dell’epatite C. Questo studio dimostra che, anche dopo una terapia efficace con DAA, quasi un paziente su dieci continua a ospitare il virus nelle proprie cellule. Gli autori dello studio sottolineano che la persistenza è spesso associata a cambiamenti nel genotipo virale e a particolari caratteristiche immunitarie, come la bassa espressione di Tim-3. In attesa di ulteriori studi, appare evidente che la semplice negatività degli esami sierologici non basta a certificare la completa eradicazione dell’HCV. Il virus, silenzioso e adattabile, può sopravvivere a lungo, suggerendo che la vera guarigione dall’epatite C è un obiettivo più complesso di quanto si pensasse.
Sylwia Osuch et al., Persistence of hepatitis C virus in peripheral blood mononuclear cells of patients who achieved sustained virological response following treatment with direct-acting antivirals is associated with a distinct pre-existing immune exhaustion status. Sci Rep. 2025 Jun 6;15(1):19918.
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