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Infarto miocardico: metà dei pazienti non ha sintomi prima dell’evento

Beta-bloccanti a lungo termine post-infarto miocardico: questa pratica prescrittiva consolidata è ora messa in discussione

I dati di una vasta coorte statunitense hanno evidenziato che circa la metà dei pazienti colpiti da un primo infarto miocardico non presentava alcun sintomo documentato nei sei mesi precedenti

I dati di una vasta coorte statunitense hanno evidenziato che circa la metà dei pazienti colpiti da un primo infarto miocardico (MI) non presentava alcun sintomo documentato nei sei mesi precedenti all’evento. Inoltre, una quota significativa di questi soggetti non era stata sottoposta a visite di controllo né assumeva farmaci cardiovascolari preventivi.

È quanto emerge da un’analisi pubblicata sull’European Heart Journal, che sottolinea la necessità di rivedere l’attuale approccio clinico, troppo spesso basato esclusivamente sulla presenza di sintomi.

Nello specifico, il 22,2% dei pazienti non aveva avuto contatti né con il medico di medicina generale né con un cardiologo nei sei mesi precedenti l’infarto, mentre il 63,4% non assumeva alcuna terapia cardiovascolare di prevenzione. A condurre lo studio è stato Nick Nurmohamed, cardiologo presso l’Amsterdam UMC, insieme a un gruppo di colleghi internazionali.

Secondo gli autori, i dati rivelano “un bisogno clinico insoddisfatto nell’identificazione precoce e nel trattamento adeguato dei soggetti a rischio di infarto miocardico”.

Per Deepak Bhatt, direttore del Mount Sinai Heart di New York e coautore senior dello studio, è necessario ripensare i modelli di prevenzione cardiovascolare, introducendo programmi di screening sistematici, analoghi a quelli già esistenti per altre patologie oncologiche.

Una prevenzione ancora troppo tardiva
L’indagine ha analizzato i dati di oltre 4,6 milioni di pazienti con primo infarto miocardico registrato tra gennaio 2017 e settembre 2022, sfruttando i database Clarivate Real-World Data Product, che integrano informazioni provenienti da cartelle cliniche elettroniche, rimborsi sanitari e prescrizioni farmacologiche.

I risultati hanno mostrato che il 18% dei pazienti non presentava alcuno dei cosiddetti SMuRFs (standard modifiable risk factors) — ovvero dislipidemia, ipertensione, fumo, familiarità per infarto, diabete, obesità e abuso di alcol — annotato in cartella clinica. Tuttavia, secondo Bhatt, è possibile che parte di questi soggetti avesse effettivamente dei fattori di rischio non registrati, confermando una gestione incompleta del rischio cardiovascolare nella pratica quotidiana.

Ancora più rilevante è il dato sull’utilizzo di farmaci preventivi: tra i pazienti con fattori di rischio documentati e una visita medica recente, oltre la metà (56%) non assumeva alcuna terapia cardiovascolare. Anche tra coloro che avevano sintomi, fattori di rischio e una visita alle spalle, il 52,2% risultava privo di trattamento farmacologico. Il dato evidenzia quanto la prevenzione primaria resti sottoutilizzata, anche nei soggetti già individuati come a rischio.

Differenze di età, sesso e presentazione clinica
Lo studio ha evidenziato differenze significative anche in base al sesso e all’età dei pazienti. I soggetti di età inferiore ai 60 anni e gli uomini risultavano meno frequentemente inquadrati con fattori di rischio documentati, meno seguiti dai medici e meno trattati farmacologicamente rispetto agli anziani e alle donne. Inoltre, erano più spesso colpiti da infarto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), un quadro clinico più grave rispetto all’NSTEMI.

Per Colin Berry, cardiologo dell’Università di Glasgow, questi dati mettono in discussione la rappresentazione tradizionale del paziente infartuato come soggetto fumatore, iperteso e diabetico. Al contrario, l’infarto può insorgere anche in individui più giovani e apparentemente privi di fattori di rischio riconosciuti. Berry suggerisce quindi di ampliare il focus oltre i SMuRFs classici, includendo aspetti peculiari come l’ipertensione in gravidanza, la policistosi ovarica o eventi ostetrici avversi, noti predittori di rischio cardiovascolare nelle donne.

Nuove strategie per una prevenzione efficace
Le lacune emerse dallo studio chiamano in causa la necessità di strategie più mirate per identificare precocemente i soggetti a rischio. Bhatt ha sottolineato come, nonostante la difficoltà di applicare nella pratica clinica una prevenzione primaria su vasta scala, interventi mirati a basso costo — come l’identificazione proattiva dei fattori modificabili e l’adozione precoce di terapie secondo le linee guida — potrebbero rappresentare una soluzione sostenibile.

Parallelamente, sono in corso studi per valutare approcci innovativi di screening. Tra questi il trial TRANSFORM, presieduto dallo stesso Bhatt, che arruola pazienti asintomatici con rischio cardiovascolare aumentato e li randomizza a un follow-up basato sui fattori di rischio convenzionali o su una gestione guidata dalla coronary CT angiography. Lo studio valuterà l’efficacia di diverse strategie terapeutiche personalizzate.

Altre possibili vie comprendono lo sviluppo di biomarcatori circolanti e test genetici per stratificare con maggiore precisione il rischio individuale. Per Berry, inoltre, è fondamentale che i programmi di prevenzione vengano calibrati tenendo conto delle differenze di genere e di età, oltre che dei fattori socioeconomici.

Le evidenze di questa ampia coorte statunitense ribadiscono l’urgenza di superare l’approccio sintomo-centrico, ancora troppo diffuso nella pratica clinica, per puntare a una prevenzione primaria strutturata e precoce.

Bibliografia
Nurmohamed NS, Ngo-Metzger Q, Taub PR, Ray KK, Figtree GA, Bonaca MP, et al. First myocardial infarction: risk factors, symptoms, and medical therapy. Eur Heart J. 2025. ehaf390. doi:10.1093/eurheartj/ehaf390. leggi

Comunicato Mount Sinai, Innovative TRANSFORM Trial to Assess CT Imaging, Combined with AI, to Detect and Stratify Early Risk of Heart Events leggi

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