Per decenni, ai pazienti con insufficienza cardiaca cronica è stato consigliato di limitare l’assunzione di liquidi: sfatato il mito della restrizione idrica
Per decenni, ai pazienti con insufficienza cardiaca cronica è stato consigliato di limitare l’assunzione di liquidi, con l’obiettivo di ridurre il rischio di sovraccarico di volume e complicanze cliniche. Tuttavia, questa raccomandazione non si è mai fondata su evidenze solide. Le linee guida statunitensi del 2022 dell’American Heart Association (AHA), dell’American College of Cardiology (ACC) e della Heart Failure Society of America (HFSA) riconoscono come la pratica della restrizione idrica sia largamente diffusa, ma basata su dati di bassa qualità, con un impatto clinico che va da “limitato a nullo” sull’impiego di diuretici o sugli esiti a lungo termine.
A rimettere in discussione questa consuetudine è lo studio FRESH-UP, il più ampio trial randomizzato mai condotto sull’argomento, presentato in anteprima durante il congresso scientifico dell’ACC 2024 e pubblicato simultaneamente su Nature Medicine. Il razionale dello studio nasce da un’esigenza espressa direttamente dai pazienti: “Perché mi consigliate questa restrizione se non mi fa stare meglio?”, ha raccontato il coordinatore dello studio, Roland van Kimmenade, dell’Università Radboud nei Paesi Bassi.
Lo studio FRESH-UP: disegnare un trial su misura dei pazienti
Il trial ha coinvolto 504 pazienti con insufficienza cardiaca cronica stabile, prevalentemente con sintomi di classe NYHA II, di età media pari a 69 anni e con una percentuale di donne del 33%. Tutti i partecipanti erano in trattamento ottimale secondo linee guida, compreso l’uso di inibitori SGLT2, farmaci che agiscono promuovendo la diuresi attraverso il blocco del co-trasportatore sodio-glucosio a livello renale.
I pazienti sono stati randomizzati a due strategie: una restrizione idrica rigorosa (massimo 1.500 mL/die) o nessuna restrizione specifica. Sono stati esclusi dallo studio soggetti con scompenso instabile, ospedalizzati di recente o con iponatriemia.
I risultati hanno mostrato una differenza tangibile nei volumi assunti: il gruppo senza restrizioni ha riportato un’assunzione mediana giornaliera di 1.764 mL rispetto a 1.488 mL nel gruppo con limite. Circa il 74% dei pazienti nel braccio liberalizzato ha superato i 1.500 mL, e oltre un terzo ha superato i 2.000 mL al giorno.
Qualità di vita e sicurezza clinica: l’approccio liberale non penalizza
L’outcome primario era rappresentato dalla variazione nel punteggio del Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire (KCCQ), un indice validato che misura la qualità della vita, la limitazione fisica e la frequenza dei sintomi nei pazienti con scompenso cardiaco. Dopo 3 mesi, non sono emerse differenze statisticamente significative nel punteggio complessivo (KCCQ-OSS), anche se il trend favoriva l’approccio più flessibile (74.0 contro 72.2 punti; p=0.056). La differenza media aggiustata per i punteggi basali era di 2.17 punti (IC 95% -0.06 a 4.39), suggerendo che difficilmente la restrizione idrica possa portare a benefici clinici superiori.
È invece risultato significativamente migliore nel gruppo senza restrizioni il punteggio clinico del KCCQ (Clinical Summary Score), indicativo di una ridotta severità dei sintomi e minori limitazioni fisiche. Inoltre, i pazienti sottoposti a restrizione hanno riportato livelli di disagio da sete significativamente superiori, elemento spesso trascurato ma che incide sul benessere psicologico.
In termini di sicurezza, l’approccio liberale non ha comportato alcun peggioramento degli esiti: non si sono osservate differenze nei tassi di mortalità, ricoveri ospedalieri, uso di diuretici endovena, episodi di insufficienza renale acuta o modifiche significative nei dosaggi di diuretici dell’ansa. Un dato, quest’ultimo, che supporta ulteriormente la non necessità di limitare drasticamente i liquidi.
Un cambio di paradigma guidato dal buon senso clinico
La dottoressa Shelley Hall (Baylor Scott & White Health, Dallas) ha elogiato i risultati del FRESH-UP, sottolineando come molti clinici fossero già scettici sull’efficacia di una restrizione idrica così severa. “Non riusciamo a gestire i volumi nemmeno in ospedale, eppure chiediamo ai pazienti a casa di non bere oltre 1,5 litri: ora possiamo dire che 2 litri sono assolutamente accettabili”, ha dichiarato.
Pur ammettendo che anche i pazienti nel gruppo senza restrizioni tendessero spontaneamente a mantenersi sotto i 2.000 mL, Hall ha sottolineato l’impatto psicologico della sete persistente, un effetto collaterale “mentalmente faticoso”. Il messaggio pratico emerso è semplice quanto umano: “Ascoltate la sete. Bevete per dissetarvi, ma non senza limiti.”
Prospettive future: verso una medicina personalizzata e centrata sul paziente
I risultati dello studio FRESH-UP aprono una riflessione più ampia sull’importanza di riconsiderare abitudini cliniche poco supportate da evidenze e potenzialmente gravose per i pazienti. Il focus si sposta su un approccio più personalizzato, che tenga conto del benessere soggettivo e della qualità di vita, soprattutto in pazienti cronici e stabili.
In futuro, ulteriori studi potrebbero chiarire se specifici sottogruppi – ad esempio pazienti con frazione di eiezione molto ridotta o elevato rischio di ospedalizzazione – possano ancora beneficiare di strategie più conservative. Tuttavia, per la maggior parte dei pazienti ambulatoriali con insufficienza cardiaca cronica stabile, una raccomandazione meno rigida sull’apporto idrico sembra oggi giustificata, sostenibile e più rispettosa del vissuto quotidiano.
Bibliografia
Job J. Herrmann, et al., Liberal fluid intake versus fluid restriction in chronic heart failure: a randomized clinical trial, Nature Medicine Journal, 2025. leggi
Heidenreich PA, Bozkurt B, Aguilar D, et al. 2022 AHA/ACC/HFSA Guideline for the Management of Heart Failure. Circulation. 2022;145(18):e895–e1032. DOI: 10.1161/CIR.0000000000001063. leggi

