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Insufficienza cardiaca e supplementazione di ferro endovenoso: legame da approfondire

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Insufficienza cardiaca e supplementazione di ferro endovenoso: da nuovi studi arrivano dati promettenti ma ancora da approfondire

Lo studio FAIR-HF2, presentato a Chicago nel corso della sessione scientifica 2025 dell’American College of Cardiology (ACC) e contemporaneamente pubblicato su “JAMA”, ha indagato gli effetti della somministrazione endovenosa di ferro nei pazienti con insufficienza cardiaca a frazione di eiezione ridotta (HFrEF), mostrando risultati interessanti ma non ancora definitivi. Sebbene vi sia una tendenza verso la riduzione del rischio di morte cardiovascolare o di ospedalizzazione per scompenso cardiaco, i dati non hanno raggiunto la soglia di significatività statistica richiesta, rendendo necessari ulteriori approfondimenti.

I risultati principali dello studio FAIR-HF2
Lo studio, i cui risultati sono stati esposti all’ACC 2025 dal primo autore Stefan D. Anker (Deutsches Herzzentrum der Charité, Berlino), è stato condotto su 1.105 pazienti in sei Paesi europei e ha analizzato l’impatto della somministrazione di carboximaltosio ferrico rispetto al placebo.

I pazienti nel gruppo trattamento hanno ricevuto una dose iniziale di ferro endovenoso variabile tra 1.000 e 2.000 mg, seguita da somministrazioni da 500 mg ogni quattro mesi per un periodo medio di 21 mesi. I partecipanti al gruppo placebo hanno invece ricevuto soluzioni saline secondo lo stesso schema terapeutico.

I tre endpoint primari stabiliti a seguito delle difficoltà metodologiche causate dalla pandemia di COVID-19 hanno mostrato risultati al limite della significatività.

Il primo endpoint, rappresentato dal rischio di morte cardiovascolare o prima ospedalizzazione per scompenso cardiaco, ha avuto un’incidenza del 16,7% nel gruppo ferro rispetto al 21,9% nel gruppo placebo (P = 0,04). Tuttavia, il disegno dello studio prevedeva un valore soglia < 0,02 per poter considerare i risultati realmente significativi.

Anche il secondo endpoint, relativo alla totalità delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco, ha mostrato una riduzione del 20%, seppure con una significatività insufficiente (P = 0,12).

Infine, il terzo endpoint primario, che considerava la mortalità cardiovascolare o la prima ospedalizzazione per scompenso nei pazienti con saturazione della transferrina < 20%, ha evidenziato un’incidenza del 18,9% nel gruppo ferro rispetto al 25,6% nel gruppo placebo (P = 0,07).

Implicazioni e analisi secondarie
L’analisi dei dati suggerisce che l’effetto positivo del trattamento si manifesti prevalentemente nel primo anno di terapia, durante il quale la dose media somministrata è risultata più elevata.

Infatti, il dosaggio medio del ferro è diminuito progressivamente nel corso degli anni successivi, passando da 2.040 mg nel primo anno a 925 mg nel secondo e 750 mg nel terzo. Questo aspetto potrebbe spiegare la mancata conferma statistica dell’efficacia nel lungo periodo.

In termini di qualità della vita, lo studio ha evidenziato un miglioramento nella percezione soggettiva dello stato di benessere nei pazienti trattati con ferro rispetto al placebo. Anche il test del cammino di 6 minuti ha mostrato una variazione favorevole nel gruppo trattamento, seppure non statisticamente significativa.

Un’analisi dei sottogruppi ha inoltre suggerito che gli uomini potrebbero trarre maggiori benefici rispetto alle donne dalla supplementazione di ferro. Questo dato potrebbe indicare una differenza fisiologica nel metabolismo del ferro tra i due sessi e richiede ulteriori approfondimenti.

Revisione sistematica e meta-analisi di sei trial randomizzati
I ricercatori hanno condotto anche una revisione sistematica di sei trial randomizzati, i cui risultati sono stati pubblicati contemporaneamente all’ACC 2025 su “Nature Medicine”.

Anker e colleghi hanno confrontato la supplementazione di ferro con il placebo in un totale di 7.175 pazienti con HFrEF, tra cui FAIR-HF2, IRONMAN e AFFIRM-AHF. È stata evidenziata una riduzione del 28% nel rischio di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco o morte cardiovascolare nei primi 12 mesi di trattamento.

Questo suggerisce che un dosaggio più costante nel tempo potrebbe essere cruciale per ottenere risultati significativi.

La pubblicazione contemporanea dello studio su “JAMA” e della meta-analisi su “Nature Medicine” conferma l’importanza dei dati emersi, seppure i risultati non forniscano prove definitive sulla necessità di includere la supplementazione di ferro nei protocolli terapeutici per l’HFrEF.

Bibliografia
Anker SD, Friede T, Butler J, et al. Intravenous Ferric Carboxymaltose in Heart Failure With Iron Deficiency: The FAIR-HF2 DZHK05 Randomized Clinical Trial. JAMA. 2025 Mar 30:e253833. doi: 10.1001/jama.2025.3833. Epub ahead of print. leggi

Anker SD, Karakas M, Mentz RJ, et al. Systematic review and meta-analysis of intravenous iron therapy for patients with heart failure and iron deficiency. Nat Med. 2025 Mar 30. doi: 10.1038/s41591-025-03671-1. Epub ahead of print. leggi

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