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Diabete di tipo 2 abbassa la soglia di età per il rischio di malattia cardiovascolare

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Una diagnosi di diabete di tipo 2 abbassa la soglia di età per il rischio di malattia cardiovascolare (CVD) a 10 anni. È quanto suggerisce un ampio studio danese

Una diagnosi di diabete di tipo 2 abbassa la soglia di età per il rischio di malattia cardiovascolare (CVD) a 10 anni. È quanto suggerisce un ampio studio danese – pubblicato sul “Journal of American College of Cardiology” – il che significa che alcuni individui di mezza età potrebbero essere a rischio un decennio prima o più rispetto alle persone di età simile senza diabete.

In tutte le età, i rischi a 10 anni di infarto miocardico non fatale, ictus non fatale e CVD fatale erano più alti in quelli con una diagnosi di diabete, ma le disparità più pronunciate sono state osservate nelle persone tra i 40 e i 50 anni, dove una nuova diagnosi di diabete ha aumentato il rischio di oltre due volte rispetto agli individui della stessa età senza diabete.

Negli uomini, il rischio del 5% di CVD a 10 anni è stato raggiunto all’età di 43 anni nelle persone con diabete rispetto ai 55 anni di quelle senza diabete. Allo stesso modo, nelle donne, una diagnosi di diabete ha abbassato l’età, da 61 a 51 anni, in cui hanno raggiunto il rischio di CVD a 10 anni del 5%.

Carenti raccomandazioni nelle linee guida sulla gestione di pazienti più giovani
L’autore senior dello studio, Michael Maeng, dell’Ospedale Universitario di Aarhus (Danimarca), ha osservato che le attuali linee guida per il trattamento, comprese quelle della Società Europea di Cardiologia (ESC) per la prevenzione primaria e secondaria della malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD), non forniscono forti raccomandazioni per la gestione di questi pazienti più giovani di nuova diagnosi.

«Questi giovani pazienti con diabete di tipo 2 sono quelli con il più alto rischio relativo e la durata della vita più lunga davanti a loro» scrivono Maeng e colleghi. «Pertanto, scopriamo che c’è un bisogno insoddisfatto di un trattamento ottimizzato».

Insieme ad altri dati recenti, l’articolo danese si aggiunge a un quadro crescente di anni di vita significativi persi a causa di CVD nei pazienti diabetici di mezza età di nuova diagnosi rispetto a quelli senza diabete.

Call-to-action ai cardiologi perché affrontino un problema clinico finora sottovalutato
«Non c’è dubbio. Questa è una ‘call-to-action’ per tutti noi a pensare a questa criticità e assumercene la responsabilità molto prima» osserva in un editoriale Michael J. Blaha, del Johns Hopkins Ciccarone Center for the Prevention of Cardiovascular Disease di Baltimora. «Ovviamente, è giunto il momento per noi cardiologi di affrontare questo problema».

Lo sviluppo del diabete nella mezza età rispetto a periodi più tardivi nella vita è comunemente associato a marcati cambiamenti metabolici come obesità, infiammazione, ipertensione e apnea notturna, ma il suo significato prognostico per le malattie cardiovascolari spesso viene sottovalutato nei gruppi di età più giovani in cui il diabete è fiorente, ha aggiunto Blaha.

«Penso che questo sia un documento molto importante per affrontare il problema in modo articolato e per comunicarne gli aspetti rilevanti ai pazienti ma anche agli estensori di linee guida e al personale addetto alla tutela della salute pubblica» osserva. «In questo modo si può mettere il rischio nella giusta prospettiva e di lì costruire una strategia preventiva».

Aumento relativo di rischio, picco nella fascia dei 40 e 50enni
Per lo studio, Maeng e colleghi guidati da Christine Gyldenkerne, dell’Ospedale Universitario di Aarhus, hanno esaminato il rischio a 10 anni di CVD in 142.587 pazienti senza ASCVD nota a cui è stato diagnosticato il diabete tra il 2006 e il 2013 e in una coorte di 388.410 individui abbinati per età e sesso della popolazione generale senza storia di diabete o precedente ASCVD.

Rispetto ai pazienti con diagnosi di diabete posta più avanti negli anni, quelli diagnosticati prima dei 50 anni avevano tassi più elevati di obesità e ricevevano meno farmaci profilattici, tra cui statine e antipertensivi. Nel corso di un follow-up mediano di 8,1 anni, i pazienti con diabete di nuova diagnosi hanno avuto un’incidenza cumulativa a 10 anni di CVD del 12% rispetto al 9,3% nella popolazione generale, nonché tassi più elevati delle singole componenti di CVD (infarto miocardico, ictus e CVD fatale).

Quando l’analisi è stata stratificata per età, si è rilevato un aumento graduale del rischio a 10 anni di CVD con l’aumentare dell’età. Tale rischio variava dal 2% nei pazienti di età inferiore ai 40 anni al 30% nei soggetti di età pari o superiore a 80 anni. Tuttavia, l’aumento relativo del rischio di CVD nei pazienti diabetici di nuova diagnosi rispetto alla popolazione generale era molto più piccolo negli anziani, pari a solo allo 0,3% per quelli di età pari o superiore a 80 anni, rispetto al 2,8% tra i 40enni e al 2,7% tra i 50enni.

In tutte le fasce d’età, gli uomini con diabete di nuova diagnosi avevano maggiori rischi di CVD a 10 anni rispetto alle donne, in particolare nei gruppi di età più giovani.

Da rivedere la preparazione degli specialisti sulle malattie cardiometaboliche
«Dobbiamo avere un approccio aggressivo per trattare questi pazienti quando vengono diagnosticati, indipendentemente dal fatto che la diagnosi sia fatta dal medico di base, da un cardiologo o di qualsiasi altra specialità» affermano Maeng e colleghi.

Nell’editoriale, Blaha e Michael Khorsandia, del Johns Hopkins Ciccarone Center for the Prevention of Cardiovascular Disease, sostengono che è difficile immaginare qualsiasi altra area della medicina cardiovascolare che sia pronta ad «avere un impatto maggiore sulla salute della nostra società nel 2050 rispetto a un trattamento precoce e ancor più basato sull’evidenza delle malattie cardiometaboliche».

I recenti ampi studi sugli esiti CV delle terapie per il diabete e il successo degli agonisti del recettore GLP-1 e degli inibitori SGLT2 nel ridurre il rischio di CVD, hanno inaugurato un’era in cui i cardiologi dovrebbero ora diventare caregiver attivi per coloro che hanno diabete di tipo 2 di nuova insorgenza, aggiungono. Uno svantaggio dell’adozione di questo approccio è che i cardiologi non ricevono alcuna o sufficiente formazione sull’obesità, sullo stile di vita e sulla gestione del diabete durante la loro formazione.

Ciò di cui c’è bisogno ora, dicono Blaha e Khorsandi, è una revisione del sistema sanitario statunitense per creare una “casa dedicata” per la cura dei pazienti cardiometabolici.

«Il medico di base sta cercando di gestire questo, ma non ha il tempo di dedicare davvero tutto il counseling sullo stile di vita, le discussioni sul controllo dei fattori di rischio che sono necessarie» ha detto Blaha. «Quindi, deve essere davvero un lavoro di squadra e deve iniziare presto e bisogna riconoscere che si tratta di disturbi distinti. L’obesità, il diabete, le malattie cardiache sono tutte la stessa malattia con manifestazioni diverse e quando ci si pensa in questo modo, la comunicazione e l’assistenza basata sul team diventano più evidenti e diventano più necessarie».

Fonti:
Gyldenkerne C, Mortensen MB, Kahlert J, et al. 10-Year Cardiovascular Risk in Patients With Newly Diagnosed Type 2 Diabetes Mellitus. J Am Coll Cardiol, 2023;82(16):1583-94. doi: 10.1016/j.jacc.2023.08.015. leggi

Blaha MJ, Khorsandi M. Type 2 Diabetes Mellitus: Now in the Cardiologist’s Wheelhouse. J Am Coll Cardiol, 2023;82(16):1595-7. doi: 10.1016/j.jacc.2023.08.033. leggi

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