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Leucemia a cellule capellute: buoni risultati con vemurafenib e obinutuzumab

La leucemia a cellule capellute (LCC) (o tricoleucemia) è una forma di cancro del sangue rara e a crescita molto lenta: dal 1958 a oggi, i progressi della ricerca

ADJ8AX Ilustration of a cytotoxic T cell (purple), also called a CD8 T or killer T cell, investing a tumor cell.

Leucemia a cellule capellute: l’inibitore di BRAF vemurafenib combinato con l’anticorpo monoclonale anti-CD20 obinutuzumab in prima linea è efficace

Un trattamento con l’inibitore di BRAF vemurafenib combinato con l’anticorpo monoclonale anti-CD20 obinutuzumab in prima linea si traduce in alti tassi di remissione completa nei pazienti con leucemia a cellule capellute. Lo evidenziano i risultati di uno studio di fase 2 appena pubblicato su Nejm Evidence.

Dei 30 pazienti arruolati nello studio, 27 (il 90%) hanno ottenuto una remissione completa, mentre i rimanenti tre hanno interrotto precocemente il trattamento a causa di eventi avversi e non erano valutabili per la risposta, riferiscono Jae H. Park, del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, e gli altri autori.

Inoltre, 26 dei soggetti che hanno risposto hanno raggiunto anche la negatività della malattia minima residua (MRD).

Con un follow-up mediano di 34,9 mesi dalla prima dose di vemurafenib, il tasso di sopravvivenza libera da progressione (PFS) stimato è stato del 97% sia a 24 mesi sia a 36 mesi dall’inizio del trattamento, così come il tasso di sopravvivenza globale (OS) stimato.

Tra i 27 pazienti che hanno completato il trattamento, nessun paziente ha avuto una recidiva e tutti erano vivi al momento della pubblicazione dello studio.

In più, non si sono osservate tossicità dose-limitanti.

«Questi dati supportano fortemente ulteriori studi sul regime vemurafenib più obinutuzumab rispetto a cladribina più rituximab in uno studio randomizzato», scrivono Park e i colleghi.

Probabilità di ricadute correlata alla MRD
La leucemia a cellule capellute è una rara neoplasia linfoproliferativa delle cellule B caratterizzata da un’alta prevalenza della mutazione V600E del gene BRAF.

Per oltre due decenni, spiegano gli autori nel loro articolo, la terapia di prima linea di questo tumore è stata costituita dagli analoghi delle purine cladribina e pentostatina, che in circa l’80% dei casi permettono di ottenere una remissione completa. Tuttavia, la malattia resta incurabile e molti pazienti finiscono per andare incontro a ricadute.

Dopo la terapia di prima linea con analoghi delle purine, la percentuale di pazienti che presenta ancora una malattia minima residua (MRD) rilevabile varia dal 13% al 61% e la quantità di MRD è correlata al rischio di recidiva.

Sebbene l’aggiunta dell’anticorpo anti-CD20 rituximab ai regimi a base di cladribina abbia migliorato i tassi di remissione con MRD non rilevabile e i ridotto tassi di recidiva, gli autori spiegano che la terapia basata sugli analoghi delle purine comporta un rischio di mielosoppressione prolungata, infezioni gravi e tumori maligni secondari.

Necessari nuovi regimi con farmaci target e chemo-free
Pertanto, sottolineano, servono nuovi regimi basati su farmaci a bersaglio molecolare (target) e non sulla chemioterapia, specie per i pazienti con leucemia a cellule capellute che spesso presentano pancitopenia e infezioni gravi concomitanti.

In uno studio precedente, gli autori avevano riportato tassi di risposta complessivi superiori al 90% utilizzando vemurafenib in pazienti con leucemia a cellule capellute recidivante o refrattaria; tuttavia, i tassi di remissioni complete erano risultati piuttosto bassi (33%), nessuno dei pazienti in remissione completa aveva raggiunto la non rilevabilità della MRD e dopo un follow-up mediano di 40 mesi due terzi di essi avevano avuto una recidiva.

In uno studio recente su pazienti con leucemia a cellule capellute recidivante o refrattaria, l’aggiunta di rituximab a vemurafenib ha portato il tasso di remissione completa al 100%, con un tasso di negatività della MRD del 73%. Tuttavia questo approccio non era mai stato valutato come trattamento di prima linea.

Nello studio appena pubblicato, Park e i colleghi hanno scelto obinutuzumab, anziché rituximab, perché ha mostrato un’attività superiore in monoterapia in altri linfomi non Hodgkin indolenti e nella leucemia linfatica cronica.

Lo studio
Lo studio è stato condotto in tre centri negli Stati Uniti da marzo 2018 a febbraio 2021 e ha incluso pazienti adulti (età mediana: 54 anni, 90% uomini) affetti da leucemia a cellule capellute classica, non trattati in precedenza.

I partecipanti sono stati trattati con vemurafenib orale 960 mg due volte al giorno per quattro cicli di 28 giorni ciascuno. Il trattamento non è stato interrotto tra i cicli e i pazienti non sono stati trattati con obinutuzumab durante il primo ciclo. L’anti-CD20 è stato somministrato alla dose di 1000 mg per via endovenosa nei giorni 1, 8 e 15 del ciclo 2 e nel giorno 1 dei cicli 3 e 4.

L’endpoint primario era il tasso di remissione completa, mentre gli endpoint secondari comprendevano la valutazione della sicurezza e della MRD e il carico allelico di BRAF (valutato mediante ddPCR).

Citopenie sotto controllo
I profili di sicurezza della combinazione di vemurafenib e obinutuzumab sono stati controllati con riduzioni di dosaggio, riferiscono gli autori.

In caso di eventi avversi correlati a vemurafenib, la dose del farmaco è stata ridotta in 26 dei 27 pazienti che hanno completato quattro cicli di vemurafenib. Le riduzioni della dose sono state dovute molto probabilmente al manifestarsi di artralgia ed eruzione cutanea durante il primo mese di trattamento, eventi avversi risultati comunque transitori e reversibili. La dose finale più utilizzata è stata di 480 mg due volte al giorno.

Gli eventi avversi più comuni correlati a vemurafenib sono stati rash, artralgia e prurito.

La maggior parte dei pazienti ha mostrato una normalizzazione della citopenia entro le 4 settimane di lead-in con la monoterapia con vemurafenib e la citopenia successivamente non è peggiorata durante il trattamento. Inoltre, pochi pazienti hanno avuto bisogno di essere supportati con emoderivati: solo in due casi sono state necessarie trasfusioni di sangue o piastrine.

Necessario follow-up più prolungato
Nella discussione, Park e i colleghi riconoscono che il loro studio presenta alcuni limiti, fra cui le piccole dimensioni e il fatto di essere a braccio singolo, senza gruppo di confronto.

Inoltre, osservano che il disegno dello studio «preclude un’analisi statistica formale dell’efficacia clinica della combinazione di vemurafenib e obinutuzumab rispetto ad altri regimi consolidati come cladribina più rituximab o vemurafenib più rituximab».

In più, aggiungono gli autori, il follow-up è stato relativamente breve. Serve, dunque, un periodo di osservazione più prolungato per verificare se le remissioni ottenute con la combinazione sono durature, oltre che per monitorare lo sviluppo di eventuali neoplasie secondarie.

Bibliografia
J.H. Park, et al. Vemurafenib and obinutuzumab as frontline therapy for hairy cell leukemia. NEJM Evid. 2023; doi: 10.1056/EVID0a2300074. Link

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