Site icon Corriere Nazionale

Tasse: dopo la stangata di giugno buste paga più pesanti

multinazionali

L’Ufficio studi della CGIA ha stimato in 63,9 miliardi di euro l’ammontare complessivo delle tasse versate a giugno ma da oggi buste paga più pesanti

Nel mese che ci siamo appena lasciati alle spalle, il fisco ha cominciato seriamente a presentare il “conto” agli italiani. Tra le ritenute Irpef dei dipendenti, l’Iva, l’Ires, l’Imu, l’Irap, l’Irpef in capo ai lavoratori autonomi, le addizionali, etc., l’Ufficio studi della CGIA ha stimato in 63,9 miliardi di euro l’ammontare complessivo delle tasse che, entro ieri, sono state versate nello scorso mese nelle casse dello Stato. Va comunque ricordato che giugno, assieme a novembre, è da sempre il mese dove si concentra il maggior numero di scadenze fiscali. C’è comunque dell’altro da segnalare. Non solo paghiamo molto – e questo lo possono affermare tutti coloro che sono “conosciuti” dall’Amministrazione finanziaria – ma, come ha ricordato recentemente anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, pure pagare le tasse è estremamente difficile.

La complessità e la farraginosità del nostro sistema tributario, purtroppo,  stanno creando delle grandi difficoltà interpretative persino agli addetti ai lavori, come i commercialisti, gli esperti fiscali delle associazioni di categoria o dei Caf. Figuriamoci gli imprenditori, in particolar modo quelli di piccola dimensione che subiscono 80 scadenze tributarie e contributive ogni anno[1]. “Travolti” da questo dedalo fiscale, con il rallentamento dell’economia è diminuita la liquidità disponibile per onorare questi impegni, anche alla luce del fatto che i committenti hanno allungato i tempi di pagamento e le banche sono tornate a erogare il credito con il contagocce.

Dall’analisi dei risultati emersi da questa elaborazione, l’Ufficio studi della CGIA segnala che nello scorso mese di giugno l’impegno economico più gravoso ha riguardato il pagamento delle ritenute Irpef dei dipendenti e dei collaboratori che ammontano a 13,9  miliardi di euro. Per i contribuenti con scadenza mensile (imprese e lavoratori autonomi), il versamento dell’Iva relativo al mese di maggio ha toccato i 13 miliardi di euro. Altrettanto oneroso è stato il versamento del saldo 2022 e dell’acconto 2023 relativo all’Ires (Imposta sui redditi delle società di capitali). Le imprese hanno dato all’erario 12,7 miliardi di euro. Il pagamento della prima rata dell’Imu-Tasi sulle seconde/terze case, sui capannoni, gli uffici e i negozi è costato 9,8 miliardi di euro. Il saldo 2022 e l’acconto 2023 dell’Irap, invece, hanno “prelevato” dalle attività produttive 4,9 miliardi.  L’Irpef in capo a tutti i lavoratori indipendenti (partite Iva) e agli altri percettori di reddito (da fitti, altri proventi, etc.)  è costata 3,7 miliardi, mentre la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti (Tari) ha consentito alle multiutility che gestiscono questo servizio di incassare 2,6 miliardi di euro. L’Ufficio studi della CGIA fa notare che il gettito di ciascuna imposta riportata in questa elaborazione è stato stimato sulla base dell’andamento registrato negli ultimi anni. Oltre a ciò, si è tenuto conto anche degli effetti economici dovuti alle modifiche legislative intervenute nell’ultimo periodo[2].

Grazie al decreto Lavoro approvato definitivamente l’altro ieri, il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 35 mila euro lordi sale di 4 punti percentuali. La misura, però, sarà temporanea. Entra in vigore oggi e terminerà il prossimo 31 dicembre. Nel dettaglio:

–      per gli stipendi fino a 25 mila euro lordi, il taglio del cuneo passa dal 3 al 7 per cento. Questo comporterà un ipotetico aumento dello stipendio attorno ai 70 euro al mese;

–      per le retribuzioni da 25 a 35 mila euro lordi, invece, la riduzione sale dal 2 al 6 per cento. Si ipotizza un aumento in busta paga di circa 90 euro mensili.

Al netto dei lavoratori agricoli e domestici, nel settore privato del nostro Paese sono interessati da questa misura poco più di 13,5 milioni di dipendenti, pari all’86,3 per cento circa del totale dei lavoratori dipendenti occupati nel settore privato[3].

Nel 2022 il fisco ha recuperato dalla lotta all’evasione oltre 20 miliardi di euro. Questo dato, annunciato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), è l’ennesima dimostrazione che negli ultimi anni la lotta contro l’infedeltà fiscale sta dando i suoi frutti. Sebbene il 2020 sia stato un anno molto particolare a causa della pandemia, il tax gap stimato dal MEF è sceso a 89,8 miliardi di euro; di cui 78,9 sono ascrivibili al mancato gettito tributario e gli altri 10,8 miliardi sono il “frutto” dell’evasione contributiva.

Pur non potendo contare su quasi 79 miliardi di euro di tasse ogni anno, un importo che purtroppo rimane ancora straordinariamente elevato, l’Amministrazione finanziaria italiana sembra essere riuscita a imboccare la strada giusta per combattere efficacemente questa piaga sociale ed economica che da sempre caratterizza negativamente il nostro Paese. Tra la compliance fiscale[4], lo split payment[5], la fatturazione elettronica e l’invio telematico dei corrispettivi, una serie di contribuenti – tra cui gli evasori incalliti, chi riceveva i pagamenti dallo Stato per un servizio o una prestazione lavorativa resa e poi non versava l’Iva e, infine, i professionisti delle cosiddette “frodi carosello”[6] – sono stati indotti a ravvedersi. Non solo. Anche il leggero calo della pressione fiscale registrato in questi ultimi anni ha sicuramente avuto un effetto positivo sul fronte delle entrate. Sebbene sia ancora del tutto insufficiente, la contrazione del carico fiscale ha contribuito, in parte, a ridurre l’evasione, soprattutto quella che in gergo viene chiamata di “sopravvivenza”.  Purtroppo, chi è completamente sconosciuto al fisco continua imperterrito a farla franca, così come le organizzazioni criminali di stampo mafioso che sempre con maggior dedizione seguitano a coltivare i propri traffici illegali. Poco “sensibili” alla fedeltà fiscale lo sono anche quelle multinazionali e i giganti del web che, in Italia, realizzano profitti milionari, ma la stragrande maggioranza delle imposte le versano nei paesi a elevata fiscalità di vantaggio. Secondo l’Area studi di Mediobanca, ad esempio, nel 2021 il 30 per cento circa dell’utile ante imposte delle 25 principali big tech presenti nel nostro Paese è stato tassato in Paesi a fiscalità di vantaggio. Questa forma di elusione ha consentito a queste realtà di risparmiare 12,4 miliardi di euro di tasse; se consideriamo il triennio 2019-2021[7], tale importo è salito a 36,3 miliardi di euro.

In UE solo la Francia e il Belgio hanno registrato un peso fiscale superiore al nostro. Se a Parigi la pressione fiscale nel 2022 era al 47,7 per cento del Pil, a Bruxelles si è attestata al 45,1 per cento. Da noi, invece, ha toccato la soglia record del 43,5 per cento. Tra i 27 dell’UE, l’Italia si “colloca” al terzo posto. La Germania, invece, si è posizionata al 9° posto con una pressione fiscale del 41,9 per cento, mentre la Spagna la scorgiamo al 12° posto con il 38,5 per cento. La media dei Paesi dell’Area dell’Euro è stata del 41,9 per cento.

Oltre ad avere un carico fiscale tra i più elevati d’Europa, l’Italia è il Paese, assieme al Portogallo, dove pagare le tasse è più difficile, in particolar modo per le imprese. Secondo le ultime statistiche elaborate dalla Banca Mondiale (Doing Business 2020), i nostri imprenditori “perdono” 30 giorni all’anno (pari a 238 ore) per raccogliere tutte le informazioni necessarie per calcolare le imposte dovute; per completare tutte le dichiarazioni dei redditi e per presentarle all’Amministrazione finanziaria; per effettuare il pagamento on line o presso le autorità preposte. In Francia per espletare le incombenze burocratiche derivanti dal pagamento delle tasse sono necessari solo 17 giorni (139 ore), in Spagna 18 (143 ore) e in Germania 27 (218 ore), mentre la media dell’Area dell’Euro è di 18 giorni (147 ore). I dati si riferiscono a una media impresa (società a responsabilità limitata), al secondo anno di vita e con circa 60 addetti.

[1] La stima è riferita ad una piccolissima azienda con almeno un dipendente.

[2] Nei pagamenti effettuati a giugno non sono stati inclusi i contributi previdenziali. In merito alla Tari, invece, le scadenze di pagamento sono stabilite dai singoli Comuni che devono prevedere almeno due rate annue. In questa analisi abbiamo ipotizzato che il tributo venga versato in 4 rate e una delle quali sia scaduta proprio a giugno.

[3] Inps, “Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato”, Roma, novembre 2022.

[4] Prassi introdotta con la legge n° 190/2014 in base alla quale l’Agenzia delle Entrate con apposita comunicazione informa il contribuente su possibili irregolarità invitandolo a verificare e a ravvedersi, incentivando così l’assolvimento spontaneo degli obblighi tributari e favorendo l’emersione spontanea delle basi imponibili.

[5] Detta anche scissione dei pagamenti, è una forma di liquidazione Iva. Questo provvedimento prevede che, nei rapporti tra aziende/professionisti e la Pubblica Amministrazione, sia quest’ultima a trattare e versare l’imposta relativa alla transazione. Questa procedura, diventata operativa a partire dal 1° luglio 2017, devia dalla regola generale secondo cui l’Iva viene addebitata in fattura al cliente e poi versata alle casse dell’Erario dal fornitore impone invece che sia la Pubblica Amministrazione a farlo direttamente.

[6] E’ un’operazione fittizia o inesistente che avviene tra varie società in UE appositamente create a questo scopo. Questo tipo di illecito termina nella richiesta di rimborso Iva non spettante.

[7] Area studi Mediobanca, “La frenata dei giganti del Websoft”, Milano, 30 novembre 2022.

Exit mobile version