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Tumore al rene: Siuro chiede di migliorare assistenza extra ospedaliera

Nuovi farmaci per la malattia renale cronica e strategie per migliorare i trapianti. Arrivano dal Congresso della Società Italiana di Nefrologia le ultime novità nella cura dei pazienti nefropatici

Tumore al rene: per la Società Italiana di Uro-Oncologia (SIUrO) vanno migliorati i collegamenti tra specialisti e medici di famiglia

In Italia i pazienti con tumore renale incontrano alcune difficoltà durante il loro percorso di cura.  Per il 58% è insufficiente l’assistenza da parte della medicina territoriale mentre il 29% fatica a contattare il medico specialista. Per il 46% risulta difficile accedere agli esami di follow-up dopo le terapie, mentre il 24% ha difficoltà a compilare i documenti sanitari. Sono questi alcuni dati emersi da un sondaggio on line svolto tra 216 malati e promosso dalla Società Italiana di Uro-Oncologia (SIUrO).

I risultati sono stati presentati durante il webinar “Tumore del Rene” che è andato in onda, nei giorni scorsi, sulla pagina Facebook della Società Scientifica. Si tratta del terzo di una serie di eventi on line che rientrano nel progetto “SIUrO Incontra Pazienti e Caregiver”. Una volta al mese gli esperti della SIUrO affrontano a 360 gradi tutti gli aspetti inerenti i tumori urologici (prevenzione, terapie, impatto sulla vita quotidiana, difficoltà burocratico-amministrative, riabilitazione). Malati, caregiver, personale medico-sanitario, nonché semplici utenti del web possono così rivolgere domande direttamente agli specialisti.

“La medicina territoriale deve avere un ruolo fondamentale nella lotta a tumori complessi come quelli urologici – afferma Camillo Porta, Professore Ordinario di Oncologia Medica all’Università Aldo Moro di Bari e Direttore della Divisione di Oncologia Medica del Policlinico di Bari-. In particolare il Medico di Medicina Generale è la prima figura di riferimento per i pazienti e caregiver fin dalla diagnosi. Deve riuscire ad indirizzare il suo assistito dallo specialista giusto, sia esso l’urologo o l’oncologo. Vi è poi il grosso problema della gestione degli effetti collaterali che colpiscono quando il malato è a casa; è qui che il Medico di Famiglia deve fare la sua parte rimanendo ovviamente in contatto con lo specialista. Siamo reduci da due anni terribili dove la pandemia ha sconvolto l’ordinaria assistenza sanitaria ospedaliera e ha evidenziato i limiti della medicina territoriale, soprattutto in alcune Regioni. E questo spiega in parte le numerose difficoltà evidenziate dal sondaggio che abbiamo condotto nelle scorse settimane. Bisogna assolutamente rinforzare i collegamenti tra Medicina territoriale ed ospedaliera, e alcuni recenti provvedimenti del Governo sembrano andare in questa direzione”.

“Nel nostro Paese vivono più di 144mila persone con una diagnosi di carcinoma renale – aggiunge il dott. Marco Roscigno, Dirigente Medico Unità di Urologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo -. I tassi di sopravvivenza a cinque e dieci anni sono in netto miglioramento grazie soprattutto all’introduzione prima delle terapie mirate e poi dei farmaci immunoterapici. L’intervento chirurgico è la principale indicazione nei pazienti con malattia non metastatica, mentre per i malati con malattia diffusa è necessario un percorso terapeutico condiviso dai vari specialisti, in cui rientrano trattamento medico, chirurgico e radioterapico. Le varie cure possono determinare degli effetti collaterali che, sempre secondo il nostro sondaggio, sono giudicati di forte impatto da tre pazienti su quattro”.

“E’ una neoplasia nella quale la chemioterapia ha sempre avuto scarso utilizzo – prosegue Stefano Arcangeli, Direttore Unità di Radioterapia ASST Ospedale San Gerardo di Monza -. Per quanto riguarda la radioterapia, essa invece trova indicazione soprattutto nel trattamento di alcuni siti metastatici o per ridurre il dolore correlato alle metastasi ossee. Al momento, poi, alcuni studi stanno valutando l’efficacia di possibili combinazioni tra radioterapia e immunoterapia. I primissimi dati dimostrano che si tratta di un trattamento fattibile e sicuro, ma va ancora dimostrata la sua reale efficacia. In futuro potrebbe esserci una sempre maggiore integrazione tra queste due modalità terapeutiche”.

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