Site icon Corriere Nazionale

Nello sport la troppa competizione fa rima con antisportività

presidenti calcio allenatori giovanili

Nei guai due presidenti di squadre di calcio toscane

L’attività sportiva durante la crescita ha effetti positivi sulla salute fisica e mentale ma la troppa competizione porta all’antisportività

Si inizia a praticare sport fin da bambini, a scuola, dopo le lezioni o nel fine settimana. Si inizia per gioco, per divertirsi, per stare con gli amici e dar sfogo a quella inesauribile energia tipica della fanciullezza.

Ma non solo, l’attività sportiva durante la crescita ha effetti positivi sulla salute fisica e mentale, aumenta l’autostima e l’autoefficacia (percezione di essere capaci di eseguire una specifica attività) e favorisce l’interazione e l’integrazione sociale, migliorando – soprattutto negli sport di gruppo – lo sviluppo delle abilità sociali e di relazione tra coetanei e adulti.

Lo sport, per sua natura, porta con sé il concetto di competizione, una competizione che spinge a mettersi in gioco, ma che a volte può far affiorare comportamenti antisportivi e una semplice partita a tennis con un amico si trasforma in una sfida molto accesa tra scorrettezze e rabbia. E quante volte è capitato di vedere alla TV anche i grandi campioni – loro che dovrebbero dare il buon esempio – commettere slealtà durante una partita di calcio o una gara di moto GP, incitati o fischiati dalla propria tifoseria.

Sono proprio queste situazioni tecnicamente non irregolari, ma considerate scorrette che possono innescare comportamenti antisportivi pur di raggiungere la vittoria. Gamesmanship, direbbero gli inglesi, per descrivere questi atteggiamenti discutibili e al limite della regolarità, in netta contrapposizione con Sportsmanship, la caratteristica etica che fa di un atleta uno sportivo.

Nello sport, infatti, non esistono solo regolamenti e punizioni, ma anche codici non scritti che devono essere rispettati per lealtà verso l’altro.

Ma perché siamo competitivi e come vivere al meglio lo sport?

Risponde Ylenia Barone, psichiatra del team della Psichiatria del Policlinico di Milano.

Ma perché siamo competitivi?

La competizione è propria dello sport, ma anche di altre attività come lo studio, in cui si vuole fare del proprio meglio per diventare bravi e raggiungere il successo come vincere una gara, prendere un 10 a scuola o suonare un pezzo difficile al pianoforte. Essere competitivi ci permette di essere attivi, è uno stimolo che ci porta a fare le cose con grinta e determinazione.

Essere competitivi, quindi, è una cosa positiva?

Sì, se pensiamo alla competizione sana, cioè quel volersi migliorare e mettere alla prova per raggiungere i propri obiettivi, e lo sport gioca un ruolo importante in tutte le età. A partire dai 6 anni i bambini, infatti, iniziano a capire l’importanza delle regole, ma anche del rispetto degli altri, e il gioco e lo sport vengono vissuti serenamente, con divertimento, proprio come dovrebbe essere.

Quando la competizione diventa quindi ‘negativa’?

In tutti i casi in cui, in maniera ripetuta e sistematica, ogni volta che si scende in campo, in pista o comunque in ambiente di gara, anche durante i normali allenamenti, il non saper perdere, il subire un fallo o la troppa voglia di vincere portano ad atteggiamenti aggressivi e scorretti.

Quali sono tipici comportamenti antisportivi e come impattano sull’avversario?

Anche nello sport esiste una etichetta cioè quell’insieme di norme e comportamenti ‘cavallereschi’, non scritti nei regolamenti, ma che sono alla base del rispetto altrui. Non dobbiamo pensare solo a scorrettezze fisiche come spinte o eccesso di falli, ma a comportamenti che vanno ad agire sulla resistenza psicologica di chi li subisce. Questo può destabilizzare l’avversario oppure innescare una risposta a cascata di comportamenti antisportivi. Due atteggiamenti tipici sono il cercare di deconcentrare l’avversario e il mancargli di rispetto. Esempi pratici? Il continuare a chiamare il time-out per far perdere la concentrazione durante un incontro a tennis oppure nel calcio il non restituire il pallone messo in fallo laterale da una squadra per permettere il soccorso di un giocatore infortunato, nel rugby il non rallentare il ritmo di gioco anche se in netto vantaggio o nel ciclismo il tentare l’ultima volata anche se già titolare della maglia leader.

Ma cosa di intende per aggressività nello sport?

Più che di aggressività, bisogna parlare di comportamento aggressivo. L’aggressività, infatti, è un tratto distintivo di tutte le specie, alla base dei meccanismi di difesa-attacco fondamentali per la sopravvivenza. E nello sport è quella grinta che spinge a raggiungere un obiettivo, ma nel rispetto delle regole e dell’altro, e durante la crescita aiuta i bambini ad imparare a gestire le proprie emozioni e sentimenti. Si parla invece di comportamento aggressivo quando nel corso di una partita si nuoce all’avversario, in maniera fisica o verbale, spinti dal desiderio della vittoria e se questo non avviene si sfoga la propria rabbia verso i giocatori dell’altra squadra, l’avversario, l’arbitro… e questo atteggiamento è sistematico, cioè avviene tutte le volte che si scende in campo.

Ma dipende dallo sport praticato?

No. È solo una convinzione che gli sport di combattimento portino ad essere aggressivi. Anzi, se pensiamo alle discipline orientali come il Karate o il Judo, oppure ad altre più da contatto come la Boxe o la Lotta Libera, viene proprio insegnato il rispetto dell’avversario. Affinché la competizione nello sport rimanga sana, indipendentemente dall’attività praticata, è fondamentale il ruolo dei genitori e dell’allenatore: il benessere fisico e mentale, infatti, potrebbe venire meno se il bambino o l’adolescente osservano nel genitore e nell’allenatore un atteggiamento di esaltazione eccessiva in cui il pensiero fisso è la sola vittoria ottenuta magari non sempre in maniera leale.

‘L’importante è partecipare’ non è solo una frase fatta?

Esatto. Genitori ed allenatore dovrebbero insegnare a perdere. Questo non vuol dire fare sport partendo già con l’idea di non vincere, ma di valorizzare il gioco di squadra e l’impegno di ognuno. Si vince e si perde insieme, anche negli sport individuali la vittoria o la sconfitta deve sempre essere condivisa e mai fatta ricadere sul singolo. Mettersi in gioco, nello sport o in qualsiasi attività, deve servire per crescere, progredire e migliorarsi, non per essere umiliati, mortificati e fatti sentire in colpa. Frasi come: Potevi prendere 10 oppure Se ti fossi impegnato di più avresti segnatoNon hai fatto abbastanza, potrebbero innescare atteggiamenti aggressivi e non corretti per raggiungere il risultato.

Infine, che ruolo hanno i genitori, gli adulti, ma anche i coetanei?

Sembrerà ovvio ma un bambino avrà maggior tendenza a sviluppare atteggiamenti antisportivi se è circondato da persone che manifestano un comportamento aggressivo. Per questo genitori, familiari e allenatore ricoprono un ruolo determinante. Anche se non sempre è semplice accettare una sconfitta o un torto è importante insegnare ai bambini a controllare le proprie emozioni ed affrontare le situazioni anche più difficili con serenità. Le tendenze aggressive naturali dei bambini saranno modulate, esaltate o inibite in base a quanto vedono negli adulti. Ma non solo. Anche i loro coetanei possono influenzare il comportamento amplificandolo, supportandolo o diminuendo: in genere i compagni di squadra o gli amici hanno una reazione opposta a quella degli adulti e il confronto di un pari può essere meglio accettato rispetto a quello di genitori o allenatore. Anche se un buon coach, in quanto figura esterna all’ambiente familiare, può esercitare un notevole e potente rinforzo positivo e fornire ai giovani atleti dei metodi per controllare la propria aggressività.

Lo sport dovrebbe portare i giovani sportivi a trasferire queste esperienze in altri contesti sociali, in cui esprimere o frenare la propria aggressività.

FONTE: POLICLINICO MILANO

Exit mobile version