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Nella costellazione di Ercole buco nero “mangia” stella gigante

L’immagine del buco nero supermassiccio al centro di Messier 87, pubblicata nel 2019

In una remota galassia nella costellazione di Ercole, quattro miliardi e mezzo di anni fa un enorme buco nero ha fatto a pezzi una stella gigante

Investigatori specializzati in cold case. È questo che sono gli astrofisici. A causa della finitezza della velocità della luce e dell’immensità delle distanze cosmiche, infatti, gli indizi sui quali si trovano a dover lavorare si riferiscono a eventi passati. Come il “delitto” avvenuto in direzione della costellazione di Ercole ricostruito oggi sulle pagine di Physical Review Letters da una squadra speciale guidata da Simeon Reusch dell’elettrosincrotrone tedesco Desy. Analizzando oltre due anni di dati raccolti da una decina fra telescopi e radiotelescopi, Reusch e colleghi sono giunti alla conclusione che nel cuore di una remota galassia a 4.4 miliardi di anni luce da noi si sia consumato uno speciale “crimine astrofisico” che va sotto il nome di distruzione mareale. Un evento di distruzione mareale – o Tde, dalle iniziali dell’espressione inglese tidal disruption event – memorabile, come vedremo, per le dimensioni da record della “vittima” – e non solo.

Riavvolgiamo dunque indietro il nastro del tempo fino a 4.4 miliardi di anni fa, o meglio, fingiamo per comodità che il misfatto ricostruito dal team guidato da Reusch sia accaduto nel momento i telescopi lo hanno osservato, come se fosse successo qui, sotto i nostri occhi. È il 27 aprile del 2019 – giorno giuliano 58600, così preferiscono contare i giorni gli astronomi – quando una stella compie un errore fatale: si avvicina troppo al buco nero centrale della galassia in cui vive. Un buco nero supermassiccio: 35 milioni di volte la massa del Sole. Il morso gravitazionale è tale che la stella, da sferica quale era, inizia a deformarsi. È una stella enorme, molto più grande del Sole. La parte più vicina al buco nero è sottoposta a una forza gravitazionale maggiore di quella che viene esercitata sulla parte più lontana, ed è esattamente questa differenza la causa della distruzione mareale: la stella si allunga finché può, poi si rompe.

Un boccone finisce verosimilmente quasi all’istante nelle fauci del buco nero. Ma è quel che resta a destare l’interesse degli scienziati. Frantumata dalla forza mareale, la stella è ora diventata un disco di detriti in rotazione sempre più rapida e stretta attorno al gorgo gravitazionale – proprio come l’acqua attorno allo scarico d’una vasca alla quale sia stato tolto il tappo. Se potessimo essere lì ad assistere a questo pazzesco fenomeno della natura (l’animazione qui sotto può venirci in aiuto), vedremmo il disco d’accrescimento – così chiamato perché destinato a nutrire il buco nero – ruotare sempre più veloce, diventando così sempre più caldo e sempre più accecante.

Questo è ciò che hanno documentato inizialmente i telescopi, primo fra tutti quello della Zwicky Transient Facility, una survey dedicata proprio a individuare questo tipo di eventi transienti. Ma la storia non è affatto terminata, anzi: siamo solo al primo atto. L’energia termica prodotta dall’efficientissimo processo di accrescimento è infatti tale da far rilucere come brace – in infrarosso – la polvere che avvolge il cuore della galassia. Polvere che però si trova a una certa distanza, a qualche “mese luce”. Ecco allora che i telescopi vedono il cuore della galassia raggiungere l’apice della luminosità non subito bensì qualche mese più tardi, il 10 agosto 2019. È la cosiddetta dust echo, l’eco della polvere che riflette – dopo un certo intervallo – la radiazione del disco d’accrescimento.

Poi la luminosità prende lentamente a scemare. Molto lentamente: impiegherà circa due anni a tornare ai livelli di partenza. Ma nel frattempo avviene qualcosa di insolito. Qualcosa che nessun telescopio potrà mai vedere. È il 30 maggio del 2020, dunque è trascorso più di un anno dalle prime avvisaglie della distruzione mareale in atto, quando l’osservatorio per neutrini IceCube, nelle profondità dei ghiacci antartici, intercetta un neutrino proveniente proprio da lì, dal cuore di quella galassia. Un neutrino ad alta energia che potrebbe essere stato prodotto da AT2019fdr – questo il nome in codice che nel frattempo gli astrofisici hanno assegnato all’evento di distruzione mareale. Se confermato, si tratterebbe del secondo neutrino generato da un evento simile mai intercettato da IceCube.

Insomma, un’indagine ad ampio spettro con risultati potenzialmente di grande rilievo, questa condotta da Reusch e colleghi. Per almeno tre motivi. Anzitutto dimostra – grazie anche ai dati raccolti successivamente con i radiotelescopi – la capacità degli eventi di distruzione mareale di rendere i dischi di accrescimento potentissimi acceleratori di particelle cosmiche: una sorta di “super Lhc”, visto che le misure compiute sul neutrino intercettato da IceCube sembrano suggerire che il cuore della galassia di provenienza si comporti – proprio come il grande anello del Cern – da acceleratore di protoni, e non di elettroni. Secondo, coinvolgendo fotoni e un neutrino provenienti dalla stessa fonte, è una fra le prime – ancora rarissime – scoperte nel nascente campo dell’astronomia multimessaggera. Infine, terzo aspetto degno di nota, complici le importanti dimensioni della stella vittima, AT2019fdr ha avuto un’intensità senza precedenti, per eventi di questo tipo.

«A renderlo l’evento di distruzione mareale più luminoso che mai abbiamo visto», spiega a Media Inaf uno fra i coautori dello studio, Marcello Giroletti, dell’Istituto nazionale di astrofisica, «è la combinazione della grande distanza – ben 4.4 miliardi di anni luce – con l’estrema intensità della radiazione, ancora osservabile per ben due anni dopo l’evento di distruzione, e ancora pari al 70 per cento della sua massima intensità quando è stato osservato il neutrino».

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