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Il Covid colpisce anche i reni danneggiandoli per mesi

Nuovi farmaci per la malattia renale cronica e strategie per migliorare i trapianti. Arrivano dal Congresso della Società Italiana di Nefrologia le ultime novità nella cura dei pazienti nefropatici

I danni ai reni provocati dal Covid: le conseguenze su questi organi, spesso sottovalutati e poco conosciuti, proseguono anche nella fase di convalescenza

L’infezione da Sars-CoV-2 può colpire anche i reni di persone sane, aggravando il decorso del COVID-19 tanto che un deceduto su 4 per Covid-19 presentava un danno renale acuto. E le conseguenze del Sars-Cov-2 su questi organi, spesso sottovalutati e poco conosciuti, proseguono anche nella fase di convalescenza: chi soffre di Long Covid, infatti, ha un elevato rischio di sviluppare problemi ai reni.

Il virus può infettare direttamente le cellule renali e causare danni cellulari ai soggetti con funzione renale normale prima della infezione. Mentre, come negli altri pazienti fragili, anche i dializzati sono più a rischio in caso di contagio.

L’impatto della pandemia sulla nefrologia è stato uno dei temi al centro della 9° edizione di Nefrofocus.

All’emergere della pandemia di Covid-19 all’inizio del 2020, i medici di Wuhan in Cina avevano segnalato insufficienza renale acuta legata all’infezione da SARS-CoV-2 nei pazienti. Ma non era chiaro se e in che modo il virus influisse sulla salute dei reni. In questi due anni è stato possibile osservare sia effetti diretti che indiretti. I meccanismi indiretti che possono portare a malattia renale sono la sepsi (infezione generalizzata), uso di farmaci tossici per i reni, eccessiva coagulazione, tromboembolia e infiammazione sistemica. I potenziali effetti diretti sul rene comprendono, invece, il danno endoteliale (tessuto che riveste i vasi sanguigni), l’infiammazione locale e la glomerulopatia.

“Le ultime evidenze – spiega Massimo Morosetti, responsabile scientifico di Nefrofocus, presidente della Fondazione Italiana del Rene (FIR) – sono state pubblicate su Cell Stem Cell. I ricercatori hanno creato un modello di infezione da COVID-19 in laboratorio mostrando che il virus può infettare direttamente le cellule renali e causare danni cellulari attraverso un processo di fibrosi (una sorta di trasformazione di parte dei reni in zone cicatriziali). Questo può spiegare la frequenza della malattia acuta renale nei pazienti con Sars-Cov-2 e lo sviluppo di malattie renali croniche associate al Long Covid”.

I dati sono evidenti anche dal report dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sulle caratteristiche dei deceduti Covid-19 in Italia: in un campione di circa 7.900 deceduti, il 2,3% era in dialisi, mentre il 24,9% riportava un danno renale acuto. La fascia d’età più soggetta al danno renale acuto è stata quella 60-69 anni; la stessa condizione medica si è verificata maggiormente tra i soggetti non vaccinati rispetto ai vaccinati con ciclo completo. “Il coinvolgimento del rene è comune nei pazienti con infezione acuta da SARS-CoV-2. Già a inizio pandemia era stato dimostrato che quasi la metà delle persone ricoverate per Covid presentava proteine o sangue nelle urine, un segno evidente di danno renale confermato nei mesi a seguire da diversi studi su autorevoli riviste scientifiche – prosegue Massimo Morosetti, che dirige l’UOC Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale G.B. Grassi di Roma – che hanno dimostrato il doppio danno che il Sars-Cov-2 è in grado di fare. Il virus infatti arriva direttamente in questi organi che abbondano di recettori ACE2, nota per essere la porta d’ingresso del virus nelle cellule. Quest’ultimo provoca, però, anche un effetto indiretto, determinato dalla risposta infiammatoria diffusa (tempesta citochinica), condizione che provoca la liberazione di mediatori dell’infiammazione nel sangue, il cui accumulo è tossico per reni”.

In base alla letteratura scientifica, si stima che l’insufficienza renale acuta compaia in una quota compresa tra il 24 e il 57% dei ricoverati per COVID-19, ma può arrivare anche all’80% tra coloro che necessitano della terapia intensiva. E il danno nei pazienti colpiti da Covid-19, permane anche dopo le dimissioni ospedaliere, come dimostra uno studio condotto negli Stati Uniti e pubblicato su Jama Network Open: le persone che avevano avuto insufficienza renale acuta in ospedale e avevano avuto il COVID-19 presentavano un tasso maggiore di diminuzione dell’eGFR (Velocità stimata di Filtrazione Glomerulare, quando è bassa indica minore funzionalità del rene) rispetto a chi aveva avuto insufficienza renale cronica senza aver avuto il COVID.

Che il deficit di attività renale tra i pazienti COVD-19 sia più accentuato rispetto al resto della popolazione, lo conferma il maggior ricorso alla dialisi e il rischio più elevato di andare incontro a insufficienza renale cronica. Un aspetto che ha reso nevralgica anche la figura del nefrologo nell’assistenza a questi ammalati. L’infiammazione, inoltre, può persistere per mesi, determinando un progressivo declino della funzione renale, anche nei casi che non avevano comportato ricovero. Una ricerca condotta su 89.000 veterani statunitensi sopravvissuti al COVID mostra un calo del 50% delle funzioni renali, in molti casi fino a un anno dopo l’infezione[4]. D’altro canto, chi soffre già di insufficienza renale è a sua volta più esposto al rischio di infettarsi di Covid e morirne, come dimostra una ricerca della Società Italiana di Nefrologia (SIN): un paziente su 4, soprattutto tra chi è dializzato o trapiantato, è deceduto a causa delle complicanze di Covid-19, un tasso di 8-10 volte superiore a quella della media della popolazione generale.

“Il modo migliore per proteggere il rene nella situazione attuale è vaccinarsi, inoltre, tra gli esami di controllo nei pazienti che hanno avuto infezione da COVID-19 si dovrebbe includere lo screening per i segni di danno renale come un controllo della azotemia, della creatininemia ed esame delle urine”, conclude il professor Morosetti.

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