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Malattie infettive: focus AMCLI sul ruolo delle cellule T

Per contrastare le infezioni da batteri multiresistenti, arriva il via libera del Chmp per il nuovo antibiotico aztreonam-avibactam

Malattie infettive: l’importanza di diagnosticare i soggetti immunodepressi e il ruolo delle cellule T al centro di un workshop di AMCLI

Come reagisce il nostro sistema immunitario alle invasioni dei patogeni e qual è l’importanza della risposta cellulo-mediata a patologie anche estremamente diverse tra loro, come la tubercolosi e il COVID? Questi gli argomenti del workshop che si è svolto in occasione del XLIX Congresso Nazionale AMCLI (Associazione Microbiologi Clinici Italiani) a Rimini.

Si tratta di un momento di confronto per fornire non solo una panoramica aggiornata sull’innovazione tecnologica nella diagnostica, ma anche per chiarire il ruolo di specifiche popolazioni cellulari quali i linfociti T (o cellule T), veri e propri responsabili della memoria immunologica.

L’evento è stato promosso da Oxford Immunotec, azienda di PerkinElmer, e leader nella produzione e commercializzazione di test diagnostici basati su cellule T.

Il sistema immune dell’uomo vanta un livello di complessità molto più elevato rispetto ad altre specie animali, in quanto dispone di diverse popolazioni cellulari (linfociti T e B, macrofagi, cellule presentatrici, cellule NK, ecc.) e molecole (anticorpi, citochine e complemento) che in modo coordinato sono capaci di rispondere all’ingresso di un agente estraneo. I meccanismi raffinati però sono molto efficienti quando funzionano bene, ma possono creare problemi, anche gravi, se si alterano uno o più passaggi. Come spiega il Dott. Oscar Matteo Gagliardi, Università di Milano – Scuola di Farmacologia e Tossicologia Clinica: «Parlando del sistema immune dobbiamo immaginare un equilibrio omeostatico, ovvero un sistema complesso integrato tra più funzioni: da una parte la risposta innata, la risposta acquisita e le barriere fisiche che resistono alle invasioni dei patogeni. Quando qualcosa perturba questo equilibrio omeostatico, pensiamo ad un gruppo molto eterogeneo di patologie, si verifica l’immunocompromissione, ovvero un’aumentata suscettibilità alle infezioni».

In particolare, le cellule T sono una componente acquisita del sistema immune, che orchestra tutta l’attività immune attraverso la produzione di sostanze come l’interferone gamma e l’interleuchina 2. Si chiamano così perché maturano nel timo e circolano nel sangue e nel sistema linfatico riconoscendo le cellule dell’organismo come proprie, evitando così di aggredirle. I linfociti T si attivano, però, quando i recettori presenti sulla loro superficie riconoscono degli antigeni (gli agenti estranei) specifici per quel recettore, con differenze sostanziali tra cellule T naïve, che impiegano mediamente due giorni a rispondere all’antigene perché non l’hanno mai incontrato, e cellule T della memoria, che reagiscono all’antigene in sole due ore e portano ad un potenziamento delle risposte in caso di esposizioni ripetute allo stesso antigene. Le cellule T attivano un pool di cellule per incrementare la risposta immunitaria, il 95% del quale muore alla fine del processo. Il restante 5% però costituisce il compartimento della memoria.

Il ruolo delle Cellule T nella diagnostica è fondamentale, in quanto permette di analizzare diversi composti come le citochine, molecole espresse dalle cellule, oggi sempre più alla ribalta per la loro implicazione nel SARS-CoV-2.

«Bisogna ricordare – spiega a riguardo Gagliardi – che il SARS-CoV-2è geneticamente simile SARS-CoV-1, condividono infatti il 79,5% delle sequenze genetiche, il che ne giustifica sia le somiglianze che le differenze. Già prima dell’attuale pandemia, sono stati condotti studi su SARS COV1 per indagare le risposte immunitarie dei soggetti che avevano contratto questo virus. Il fatto che la maggior parte degli individui che hanno contratto SARS-CoV-1 abbiano dimostrato una risposta T rilevante a fronte di una risposta anticorpale e B nulla, può suggerire che la risposta T nel SARS-CoV-2 possa anch’essa mantenersi nel tempo. Nel caso della SARS-CoV-1, infatti, gli anticorpi e la risposta B sono presenti dopo l’infezione ma durano solo 4 anni, al contrario la risposta T permane anche a distanza di 11-17 anni. Gran parte degli studi oggi in corso su SARS-CoV-2 sono su saggi sierologici, e cioè valutano l’andamento sierologico nel tempo, ma la risposta T può essere un’indagine complementare al livello anticorpale, arrivando a diventare in futuro un parametro di protezione nei soggetti vaccinati con livelli di anticorpi non rilevabili. Già oggi sappiamo come la variante Omicron “evada” la risposta anticorpale vaccinale, anche se la malattia severa viene comunque prevenuta nei vaccinati grazie alla protezione quasi invariata da parte della risposta T indotta dal vaccino».

Nella sua evoluzione la cellula T si va a differenziare con un diverso pattern di funzioni di citochine che andrà a secernere e diversi punti in cui si andrà ad alloggiare. «Noi abbiamo evidenza – precisa il Dott. Oscar Matteo Gagliardi – di diverse cellule T della memoria presenti anche a livello degli organi, ad esempio nella tubercolosi (TB) abbiamo una risposta di T residenti a livello polmonare, così che quando arriva il microorganismo è già presente una riposta T. La potenzialità di queste cellule è immensa, con sviluppi possibili anche in farmacologia. Un approccio innovativo contro i virus prevede, infatti, di focalizzarsi sulle cellule del sistema immunitario e non su un farmaco».

La diagnostica basata sulle cellule T è anche uno strumento efficace di identificazione che incide nella strategia terapeutica da andare ad attuare. Come nel caso dell’infezione da Citomegalovirus (CMV) che, anche in Italia, è presente a livello endemico in circa l’83% della popolazione generale e fino all’86% nella popolazione femminile. Eppure, nonostante quest’infezione sia asintomatica nei soggetti immunocompetenti, ovvero nelle persone sane, per soggetti immunodepressi, come i pazienti trapiantati che vivono una sorta di “immunosoppressione controllata”, il CMV diventa una delle più comuni complicanze infettive, oltre che causa di aumentata morbilità e mortalità. «In questo caso, le strategie terapeutiche impongono l’utilizzo di farmaci antivirali – commenta il Dott. Gagliardi – ma onde evitarne un utilizzo indiscriminato su tutti i soggetti trapiantati, grazie a specifici test come il DNaemia circolante che permette di capire quando c’è la riattivazione, si può arrivare a definire quali pazienti ne hanno effettivamente bisogno. In questo modo si riduce il rischio di effetti avversi legati all’utilizzo dei farmaci antivirali usati nella terapia del CMV, come la mielosoppressione che, paradossalmente, espone i pazienti trapiantati ad un maggior rischio infettivo». Riuscendo a identificare se il soggetto che deve subire un trapianto ha una risposta di tipo T elevata, ovvero che presenta una protezione adeguata rispetto all’evenienza di contrare il Citomegalovirus, si evitano le analisi sierologiche seriate nel tempo e la somministrazione del farmaco antivirale.

La risposta cellulo mediata nella tubercolosi
La tubercolosi (TB) è una malattia infettiva e contagiosa, causata da un batterio, il Mycobacterium tuberculosis, chiamato comunemente Bacillo di Koch, che nella maggior parte dei casi interessa i polmoni ma può coinvolgere anche altri distretti dell’organismo, incluso il tratto urinario, il sistema nervoso centrale, le ossa, le articolazioni e altri organi. Se non trattata, la patologia può portare al decesso, tant’è vero che rappresenta ancora una delle dieci principali cause di morte nel mondo.

Non tutte le persone che si infettano sviluppano la malattia; il sistema immunitario, infatti, può far fronte all’infezione e il batterio può rimanere quiescente per anni. Questa condizione si chiama infezione tubercolare latente e ne è affetta circa un quarto della popolazione mondiale. Le persone con infezione tubercolare latente non hanno sintomi e non sono contagiose. Molte persone non svilupperanno mai la malattia, altre invece possono ammalarsi dopo anni. Si stima che il 5-15% delle persone con infezione latente sviluppi la malattia nel corso della propria vita. Le persone ad alto rischio di sviluppare la malattia tubercolare attiva sono anche i soggetti affetti da altre condizioni che indeboliscono il sistema immunitario.

Anche se i meccanismi immuni della TB non sono ancora totalmente noti, sappiamo che il sistema immunitario blocca il virus all’interno di un granuloma dopo l’infezione rendendola quasi impossibile da rilevare. Oggi, i test di rilascio dell’interferone-gamma (IGRA) sono in grado di misurare la risposta del sistema immunitario a un antigene derivato dal micobatterio tubercolare. Grazie all’innovazione tecnologica, i test T-SPOT.TB di Oxford Immunotec sono l’unico IGRA disponibile che utilizza la tecnologia ELISPOT (enzyme-linked immunospot) semplificata: si tratta di test estremamente sensibili dal momento che la citochina target viene catturata direttamente dalla cellula secernente, prima che venga diluita nel supernatante, catturata dai recettori delle cellule adiacenti o degradata.

«La diagnostica a cellule T potrà essere applicata nel prossimo futuro a tutte le patologie in cui queste cellule hanno un ruolo – conclude Gagliardi – a cominciare dalle patologie autoimmuni, come ad esempio il diabete, la celiachia, il lupus. Andando a valutare la risposta cellulare e come intervenire, come si è iniziato a fare in ambito oncologico con le CAR-T, sviluppando terapie innovative personalizzate che vadano a desensibilizzare le cellule T».

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