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Come parlare di tumori: lo spiega il libro “De Cancer”

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De Cancer: un libro per liberare dalla visione ottocentesca del tumore. E’ scritto dall’oncologo Giovanni Amunni insieme al giornalista scientifico Walter Gatti

‘De Cancer – Storie esperienze e riflessioni per una lettura nuova e consapevole di un brutto male’, un volume che punta a raccontare il cancro come malattia cronica, che oggi può essere curata e sconfitta. Le voci dei pazienti raccolte nel libro cercano di infondere fiducia e scardinare la paura che il cancro provoca al fine di creare un nuovo clima culturale, sociale, sanitario e organizzativo. Per saperne di più l’agenzia di stampa Dire (www.dire.it) ha raggiunto il professor Giovanni Amunni, oncologo e direttore generale dell’Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica – Toscana (Ispro).

– ‘De Cancer’ è un volume che punta a raccontare il cancro come malattia cronica, scritto insieme al giornalista scientifico Walter Gatti. Qual è l’obiettivo del vostro lavoro e a chi parla?

“L’obiettivo è parlare di cancro e di questa malattia, dei pazienti e delle loro storie liberandosi da una ‘lettura’ ottocentesca di questa patologia e da una comunicazione non corrispondente alla realtà. Infatti oggi si continua a parlare di cancro come un ‘brutto male’, il ‘male oscuro’, il ‘male incurabile’. I guariti diventano i ‘sopravvissuti’ e i pazienti con malattia cronicizzata ‘lungo sopravviventi’. Eppure la malattia oncologica è seria ma grazie alla ricerca sono stati compiuti passi in avanti enormi nelle cure. E poi i tumori non sono tutti uguali. Ad esempio il tumore della mammella, intercettato al momento dello screening, ha un tasso di sopravvivenza del 95% e maggiore di molte altre malattie che però hanno un minor carico emotivo rispetto al tumore. Questo libro è scritto e rivolto soprattutto ai pazienti che sono dei ‘compagni di strada’ con cui abbiamo lavorato ma rivolto anche a quelle persone che fortunatamente non hanno avuto a che fare con il cancro perché possano capire meglio di cosa si tratta”.

 

– Nella malattia oncologica oltre l’aspetto medico vanno contemperati molti altri aspetti. Quali sono e come si può vincere la ‘battaglia contro il cancro’?

“Si tratta di una battaglia soprattutto scientifica. Nel corso degli anni abbiamo acquisito tanti nuovi strumenti che ci consentono in molti casi di guarire la malattia e in tanti casi prolungare per molto tempo la sopravvivenza. Da qui abbiamo ‘inventato’ questa nuova figura del paziente cronico che è una persona che convive, con una buona qualità della vita, con il tumore. L’altro grande strumento da mettere in campo è la prevenzione. Dobbiamo sapere che il 30 o 35% dei tumori sono considerati dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) come evitabili attraverso corretti comportamenti individuali che collettivi. Siamo davvero responsabili o meno di una pandemia da tumore. Un altro elemento essenziale è la prevenzione secondaria ovvero gli screening. L’anticipazione della diagnosi di un tumore consente di avere risultati molto brillanti. La ricerca inoltre ci consente di avere farmaci sempre più nuovi, possiamo contare su una attività chirurgica complessa come ad esempio tecniche di radioterapia innovative. Un altro tema cruciale, come accennato prima, è quello della comunicazione di questa malattia. Non bisogna ghettizzare questi pazienti e vivere con la paura, piuttosto è necessario infondere loro speranza e demitizzare questa malattia”.

 

– Lei è direttore della rete Oncologica Toscana, quali sono i progetti che porta avanti sul territorio e come la pandemia ha inciso anche sulle nuove diagnosi e dunque quelle andate perse o tardive?

“La rete oncologica della Toscana, insieme a quella del Piemonte, è la più antica rete presente nel nostro Paese e vanta più di venti anni di storia e di esperienza. La rete è un modo per garantire con più forza equità, prossimità delle cure, omogeneità delle prestazioni, diritto all’innovazione e all’alta specializzazione. La Toscana è in questo momento fortemente impegnata verso l’oncologia territoriale. Si tratta di arrivare ad una vera integrazione tra ospedale e territorio al fine di mettere al centro i bisogni del paziente oncologico. È impensabile che un numero così alto di casi di diagnosi di tumore con bisogni così diversi – che vanno da quelli ad alta intensità assistenziale ai bisogni di tipo sociale, come il reinserimento sociale – debbano avere un unico collo di bottiglia dell’oncologia che è solo ospedaliera. Stiamo lavorando per poter avere nuovi setting assistenziali per il paziente oncologico che non sono solo quelli ospedalieri ma anche letti di cure intermedie, ospedali di comunità, domicilio del paziente, luogo di cura da privilegiare quando è possibile. Il Covid-19 è stato sicuramente uno tsunami che ha investito tutti, compresa l’oncologia. Due mesi di fermo durante il lockdown hanno significato in Toscana, dove c’è una alta adesione agli screening mammografici, uno stop importante. Nel caso ad esempio dello screening del seno un mese di fermo ha comportato cento diagnosi precoci della mammella in meno. In Toscana, come in tutta Italia, abbiamo registrato un minor ricorso alla diagnostica propedeutico sempre ad intercettare la malattia. Posso dire con soddisfazione che la regione Toscana si è particolarmente distinta però per il recupero delle diagnosi perse durante la fase pandemica, da un lato e dall’altro è riuscita a garantire la continuità di presa in carico dei pazienti grazie alle televisite, portando le terapie a casa del paziente, condividendo con i medici di medicina generale il follow-up. Abbiamo risposto con grande resilienza alla pandemia”.

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