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Covid: scoperto il ruolo dell’interferone

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L’interferone potrebbe avere un ruolo nel determinare la gravità dell’infezione da Covid secondo i risultati di due studi scientifici

A quasi due anni dallo scoppio della pandemia da COVID-19, l’interrogativo più grande sul virus SARS-CoV-2, a cui tutti vogliono dare risposta, riguarda il fatto che per alcuni individui esso costituisca una minaccia mortale e in altri, invece, provochi un’infezione dai sintomi simili all’influenza; chiarire le ragioni di questa differenza potrebbe aiutare a proteggere le persone a rischio, riducendo in misura sensibile i decessi e le ospedalizzazioni. Grazie alle ricerche nel campo della genomica è possibile validare alcune ipotesi, iniziando a tracciare la strada della comprensione di questo nuovo Coronavirus. Lo dimostrano due nuove pubblicazioni apparse sulle pagine della rivista Science Immunology e firmate dagli studiosi del Consorzio Internazionale di Genetica COVID Human Genetic Effort (CHGE).

LE RICERCHE SUL RUOLO DELL’INTERFERONE

Il primo dei due studi mette in evidenza la presenza di mutazioni del gene TLR7 in una frazione superiore all’1% degli uomini di età inferiore ai 60 anni con forma grave o letale di COVID-19, mentre il secondo si focalizza sulla presenza di autoanticorpi contro l’interferone di tipo I (IFN-1) in più del 20% dei casi critici di pazienti al di sopra degli 80 anni. Al centro di entrambi i lavori c’è il ruolo dell’interferone, una molecola prodotta dal nostro organismo in risposta alle infezioni virali e scoperta più di sessant’anni fa da Alick Isaacs e Jean Lindemann, due scienziati che stavano studiando la modalità di diffusione delle epidemie influenzali. Oggi sappiamo che esistono diversi tipo di interferoni, tutti importantissimi specialmente nella risposta immunitaria di tipo innato.

Per comprendere meglio il valore delle ricerche sull’interferone – e le loro dirette implicazioni – ci siamo rivolti a Giuseppe Novelli, Professore di Genetica Medica all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e membro di spicco del CHGE. “Il virus SARS-CoV-2 entra dalle vie nasali e orali ed è a livello di queste mucose che inizia la produzione di interferone di tipo I”, spiega. “Esso costituisce la prima linea di difesa, precedente a quella degli anticorpi, che richiedono giorni per esser prodotti. Abbiamo osservato che nelle persone colpite dalla forma grave di COVID-19 è proprio l’immunità innata ad essere danneggiata, con una riduzione nella produzione di interferone. Perciò la capacità dell’organismo di rispondere all’infezione virale è molto bassa”. Ciò accade sia quando si producono mutazioni contro il gene TLR7, sia quando aumenta la quantità di autoanticorpi anti-IFN-1. “Sommando questi due dati abbiamo trovato un difetto nella via di sintesi dell’interferone nel 15% circa della popolazione, a prescindere dall’età, o perché esso non viene prodotto a causa della mutazione, o perché è distrutto dalla produzione di autoanticorpi”, prosegue Novelli. “Alla luce di ciò, diventa fondamentale testare i pazienti con SARS-CoV-2 sulla base della presenza di autoanticorpi anti-IFN-1 o per la presenza di mutazioni nei geni dell’interferone. In questo modo essi potrebbero essere vaccinati in via prioritaria”.

Già in un precedente articolo, pubblicato sulla rivista Nature, era emerso con chiarezza come la forma grave di COVID-19 fosse correlata a due distinti meccanismi: il superamento delle difese dell’immunità innata e un’eccessiva risposta infiammatoria dell’ospite. L’analisi genomica a tutto campo può dunque fornire quei tasselli fondamentali per comprendere i meccanismi con cui si realizza l’infezione e, di conseguenza, mettere in sviluppo soluzioni terapeutiche efficaci.

Di fatto, la filosofia di lavoro del CHGE è stata quella di ricercare la correlazione tra alcune mutazioni genetiche e la suscettibilità a determinate infezioni virali ed esattamente un anno fa la pubblicazione dei primi due articoli sulla rivista Science aveva evidenziato come le mutazioni a danno dell’interferone di tipo I rappresentassero la causa delle forme più critiche di COVID-19, suggerendo il trattamento tempestivo con i farmaci disponibili. “Stiamo ancora studiando quali siano le condizioni che più di frequente si associano alla produzione di autoanticorpi contro l’IFN-1”, aggiunge Novelli. “Potrebbe esserci una correlazione con i difetti nel gene AIRE legati a certe immunodeficienze, ma quello che appare certo per ora è che gli autoanticorpi aumentano con l’età in seguito a contatti ripetuti con virus o batteri. Pertanto è opportuno esplorare a fondo questo ambito, perché alcuni pazienti affetti da forme gravi di COVID-19 potrebbero andare incontro a forti miglioramenti anche solo se sottoposti alla rimozione degli autoanticorpi dal circolo sanguigno [attraverso la plasmaferesi, N.d.R.] o al trattamento con interferoni, peraltro disponibili sul mercato. In questo senso si offre loro una terapia sempre più personalizzata”. Ecco dunque che sembra essere svelato un mistero di questa pandemia che riguarda sostanzialmente i maschi e le persone al di sopra di una certa età.

LA RICERCA PROSEGUE: I VACCINI PEPTIDICI

Nel frattempo, la ricerca contro il virus SARS-CoV-2 non si ferma e sta guardando anche alle piattaforme peptidiche. In un articolo pubblicato sulla rivista Viruses, un altro gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dal prof. Novelli, si è concentrato sui peptidi, piccole catene di amminoacidi, da usare in chiave terapeutica. “Abbiamo testato gli stessi peptidi in precedenza usati per isolare gli anticorpi monoclonali nei topi osservando come stimolino una risposta immunitaria molto buona”, conclude Novelli.

Con piattaforme tecnologiche di questo tipo si possono produrre peptidi per lo sviluppo di vaccini meno costosi rispetto a quelli virali o a mRNA e facilmente somministrabili per via sub-linguale oppure tramite aerosol, perché i peptidi sono più piccoli e più facili da trasportare all’interno dell’organismo”. Se ci sarà un congruo investimento da parte delle case farmaceutiche produttrici è dunque auspicabile che il futuro ci consegni nuove armi terapeutiche contro il virus SARS-CoV-2, perché solo agendo da più lati sarà possibile sconfiggere questo nemico invisibile.

FONTE: OSSERVATORIO MALATTIE RARE

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