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Gli anacardi ponte tra il Senegal e Conegliano

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Gli anacardi di Ben Coly sono un ponte tra l’Africa e Conegliano: l’iniziativa è stata creata nel 2018 per promuovere tramite il lavoro l’integrazione dei migranti

Anacardi

Rendere più “equilibrato” lo scambio tra realtà ospitante e di origine dei migranti, nell’ottica di “contribuire al miglioramento” di entrambe, fungendo da “ponte”.
Un ponte in questo caso che unisce le distese di alberi di anacardi della regione della Casamance, nel sud del Senegal, alle colline del prosecco di Conegliano, nella provincia veneta di Treviso, è quello costruito da Ben Coly. Imprenditore di origini senegalesi, 35 anni, di cui 28 vissuti in Nord Italia, Coly è uno dei benificiari del progetto Bite (Building Integration Through Entrepreneurship).

L’iniziativa è stata creata nel 2018 con l’obiettivo di promuovere tramite il lavoro l’integrazione dei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana residenti in tre Paesi dell’Unione Europea: Italia, Grecia e Svezia. Il progetto è stato cofinanziato dal direttorato generale per Internal Market, Industry, Entrepreneurship and Smes della Commissione europea. A realizzarlo invece sono stati Etimos Foundation in collaborazione con Fondazione Ismu, E4Impact e il Comune di Milano per l’Italia, European Regional Framework for Cooperation in Grecia e Integra Ab in Svezia.

Le organizzazioni promotrici dell’iniziativa hanno lanciato il mese scorso anche un portale con l’obiettivo di “facilitare l’incontro tra aspiranti imprenditori di origine straniera e finanziatori”. Si chiama Diasporabusiness.eu e si propone come vetrina per le startup che si sviluppano nell’ambito di Bite. Tra queste c’è la società di Coly, Coop Diassine Agriculture. “Ho scoperto il progetto Bite su Facebook – ricorda l’imprenditore all’agenzia Dire – e dopo essermi messo in contatto con gli organizzatori è iniziato un percorso di mentoring che è stato per me molto utile”.

Le competenze acquisite durante la formazione sono servite a Coly per far crescere una storia costruita dalla sua famiglia, fatta a sua volta di migrazione e di ritorni. “Mio padre ha lanciato un’azienda per la coltivazione degli anacardi nel 2007, al ritorno dall’Europa” dice l’imprenditore, che ricostruisce i passaggi che hanno fatto poi evolvere quell’idea. “Abbiamo messo insieme diversi produttori locali, fatto certificare come biologiche le terre dove coltivavamo la noce, che poi raccoglievamo per fornirla a un’altra azienda locale che la preparava per l’esportazione”.

Il futuro parla di una presenza della sua azienda sempre più forte lungo tutta la filiera, dall’Italia al Senegal. “Due mesi fa abbiamo fondato una società in Italia e abbiamo avviato tutte le pratiche per stoccare il prodotto importato qui e venderlo” dice Coly. “L’obiettivo è cominciare già il prossimo anno”.

Le competenze acquisite durante il percorso con Bite sono state decisive, sottolinea l’imprenditore. “È stato fondamentale per capire come muovermi nel concreto” dice. “Ad esempio mi ha aiutato a capire che non tutte le calibrature di noce avrebbero avuto lo stesso successo nella vendita in Europa, e a fare selezione”.

Giungere a realizzare progetti appettibili per il mercato è uno degli obiettivi principali di Bite. Lo conferma Marco Sartori, presidente della Etimos Foundation. “I progetti che hanno partecipato sono 45, due sono già partiti, tra i quali quello di Coly, ma questa è solo la punta di un iceberg” sottolinea, in un’intervista con la Dire. “Abbiamo fatto un lavoro meticoloso di scrematura, volevamo che ci fossero presupposti credibili e realizzabili in tempi brevi, una ‘business idea’ seria”.

Sartori evidenzia che “l’esperienza maturata da Etimos ha fatto capire che il punto non è mettere a disposizione fondi, che attraggono in genere progettualità legate alla sola ricerca di denaro, ma fornire competenze per rendere le idee imprenditoriali leggibili e appetibile per il territorio”.

Secondo il presidente, Bite ha fatto capire che “è importante creare queste opportunità per facilitare la nascita di progetti di incubazione di imprese” ma anche per “capire se c’era o meno un gap culturale e di conoscenza che impediva l’accesso ai capitali per gli imprenditori della diaspora”.

Non da ultimo, evidenzia Sartori alla Dire (www.dire.it), il progetto è servito a mettere a confronto modi diversi di gestire la migrazione.

“Insieme a noi italiani c’era un’organizzazione greca e una svedese” dice Sartori: “Dalla frontiera calda dell’Europa al modello del welfare scandinavo”. Il presidente continua: “Abbiamo osservato approcci diversi, con l’obiettivo di crearne uno condiviso. Credo che a questo debbano servire i fondi europei: a trovare soluzioni comuni a questioni complesse comuni”.

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