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Le mine antiuomo uccidono ancora

Mine antiuomo

Giuseppe Schiavello, direttore della onlus Campagna italiana contro le mine antiuomo: “Sanzionare chi sostiene le aziende produttrici”

Nell’Afghanistan, nella Colombia o nell’Iraq che sognano la pace, ma anche nel cuore dell’Europa. I bambini muoiono ancora così: uccisi dalle minei “pappagalli verdi” che falciano e dilaniano come prima, nonostante due trattati internazionali ai quali ha aderito gran parte dei Paesi del mondo. L’Italia li sostiene ma ora ha l’occasione di fare un ultimo passo, dopo le responsabilità del passato, rilanciando l’impegno di cooperazione e per i diritti umani.

Storie, volti e sofferenze sono numeri, nei rapporti statistici. E però, si legge in un articolo pubblicato su ‘Oltremare‘, web magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), è da lì che bisogna partire per capire a che punto siamo.

Il Landmine Monitor Report, uno studio pubblicato ogni anno da esperti della società civile, ricorda che al Trattato di Ottawa del 1997 per la messa al bando delle mine hanno aderito ormai 164 Stati, l’80% del totale. Anche grazie a questo strumento, finora sono stati distrutti oltre 55milioni di ordigni negli arsenali e 30 Paesi si sono dichiarati “liberi” dalla minaccia, ultimi in ordine di tempo Cile e Regno Unito. Restano però 60 gli Stati dove i civili rischiano di far detonare mine o bombe a grappolo, le “cluster” sganciate da aerei o elicotteri, con le submunizioni che si disperdono a distanza per menomare e uccidere.

Secondo il rapporto, spiega la Dire (www.dire.it), mine antipersona continuano a essere usate dal governo del Myanmar e da gruppi armati “non statali” in più Paesi. Il 2019 è stato il quinto anno consecutivo con oltre 5000 “incidenti”, provocati in particolare da ordigni definiti “improvvisati”. Almeno 5.554 le vittime2.170 delle quali rimaste uccise. Oltre cento i morti e i feriti in Afghanistan, Colombia, Iraq, Mali, Nigeria, Yemen e Ucraina.

“Pappagalli verdi” è il titolo di un libro pubblicato nel 1999 da Gino Strada, il fondatore dell’ong Emergency. “Cronache di un chirurgo di guerra”, testimonianza e denuncia, con quegli ordigni simili a giocattoli colorati che attraggono i bambini. “Pappagallo verde” è il soprannome delle submunizioni sovietiche Pfm-1. C’erano però anche responsabilità italiane, con le esportazioni di aziende come Valsella, Tecnovar e Sei, e la volontà di colpire i più vulnerabili per negare ogni futuro.

Oltre 20 anni dopo, i bambini continuano a essere le prime vittime. Secondo il Landmine Monitor, nel 2019 hanno rappresentato il 43% dei civili colpiti, quasi uno su due. “Vogliamo ricordare tutti coloro che ancora oggi sono vittime, che hanno perso la vita o sono rimasti gravemente feriti, o ancora sono ostaggio di questi ordigni perché a causa loro non possono fare ritorno in sicurezza alle proprie case” dice Giuseppe Schiavello, direttore della onlus Campagna italiana contro le mine, parte della rete già Premio Nobel per la pace International Campaign to Ban Landmines (Icbl). “L’unico modo per garantire che queste armi non vengano usate mai più è fare in modo che i Paesi che ancora non l’hanno fatto aderiscano al più presto al Trattato di Ottawa e alla Convenzione sulle munizioni cluster approvata a Oslo nel 2008”.

Di bombe a grappolo hanno riferito quest’anno le cronache della Siria e poi ancora del Nagorno-Karabakh, un’altra regione ferita ai confini dell’Europa, tornata ostaggio del conflitto tra Armenia e Azerbaigian.

Che l’impegno non sia concluso lo confermano però anche storie e resoconti parlamentari italiani. Nel 2014, Nicolas Marzolino, un ragazzo del comune piemontese di Novalesa, trovò in un bosco un oggetto rosso e argenteo. Credette fosse un lumino da cimitero. Era una bomba a mano della Seconda guerra mondiale: gli strappò una mano e lo rese cieco. C’è poi la vicenda parlamentare. Dal 2017 è fermo l’iter per l’approvazione della proposta di legge 1813, che sanzionerebbe chi investe nelle aziende produttrici delle armi vietate dal Trattato di Ottawa e dalla Convenzione di Oslo. Secondo il rapporto Worldwide Investments in Cluster Munitions, dal 2018 nel mondo 88 istituti finanziari hanno investito nove miliardi di dollari in sette società del genere, nello specifico la brasiliana Avibras, l’indiana Bharat Dynamics Limited, le cinesi Norinco e China Aerospace Science and Industry e le sudcoreane LigNex1 e Poongsan. Schiavello sottolinea che “negare i finanziamenti ad aziende straniere che si ostinano a produrre semi di carneficina è un dovere che non può più essere rinviato”. La proposta di legge è intitolata “misure per contrastare il finanziamento di imprese produttrici di mine, munizioni e submunizioni a grappolo”. Secondo Schiavello, approvare il provvedimento sarebbe “confermare un impegno dell’Italia in ambito di cooperazione e azione contro le mine che è riconosciuto a livello internazionale”.

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