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Immunoterapia più efficace se cambia il microbioma

Quattro specie batteriche chiave del microbioma intestinale sono state identificate come predittori dello sviluppo del diabete di tipo 2

Il trapianto fecale potrebbe modificare il microbioma intestinale e permettere ad alcuni pazienti con melanoma avanzato di rispondere alla terapia con anti PD-1

Uno studio i cui risultati sono stati pubblicati su Science, mostra che in un piccolo gruppo di pazienti con melanoma avanzato resistente ad anti PD-1 (un trattamento immunoterapico a base di anticorpi monoclonali) il problema della resistenza è stato superato grazie al trapianto di microbiota fecale, che ha cambiato il microbioma intestinale, ovvero l’insieme delle cellule microbiche ospitate nell’intestino, e ha riprogrammato il microambiente tumorale. Tra gli autori dell’articolo, Giorgio Trinchieri, ricercatore del National Cancer Institute di Bethesda nonché chairman della Commissione consultiva per la ricerca di AIRC.

Gli anti PD-1, spiega AIRC, sono inibitori del checkpoint immunitario, molecole in grado di interferire con un meccanismo che impedisce alle cellule delle nostre difese di attivarsi contro quelle tumorali. Il trattamento però non funziona in tutti i pazienti. Alcune ricerche nate con lo scopo di scoprire il motivo di queste resistenze suggeriscono che possa avere un ruolo nella risposta all’immunoterapia anche la composizione del microbioma intestinale, ovvero l’insieme dei geni contenuti in questi microbi che popolano il tratto digerente.

Nello studio, pazienti con melanoma avanzato che non avevano risposto a uno o più cicli di trattamento con un anti PD-1, somministrato da solo o in associazione con altri agenti, hanno ricevuto tramite colonscopia un trapianto di microbiota fecale, che consiste nel trasferire nell’intestino di un altro soggetto le feci ottenute da un donatore e opportunatamente preparate. In questo caso, i donatori erano pazienti che avevano invece ottenuto una risposta (completa o parziale) al trattamento con anti PD-1. Campioni di sangue e feci sono stati analizzati prima del trapianto per verificare la presenza di eventuali batteri, funghi, virus e protozoi patogeni. I ricercatori hanno constatato un beneficio clinico in 6 dei 15 pazienti refrattari alla terapia anti PD-1 che avevano ricevuto il trapianto e il farmaco immunoterapico pembrolizumab (risposta oggettiva o durevole stabilizzazione della malattia di oltre 12 mesi). Quattro di questi pazienti sono ancora in trattamento, un altro è attualmente seguito e mostra una risposta parziale in corso dopo oltre due anni, mentre uno è deceduto per altre cause. Gli eventi avversi vissuti dai pazienti sono stati minori.

Grazie a specifiche analisi, è stato rilevato che nei cosiddetti “responder” – i 6 pazienti cioè che avevano ottenuto un beneficio dal trapianto – si era verificata una perturbazione del microbiota rapida e duratura, con l’aumento di microrganismi associati alla risposta agli anti PD-1. Non solo, sono stati osservati dei cambiamenti relativi ai metaboliti dell’organismo, la diminuzione di particolari segnali (chemochine e citochine) associati alla resistenza agli anti PD-1 e l’aumento di biomarcatori associati a risultati clinici favorevoli.

“I nostri risultati giustificano ulteriori indagini in sperimentazioni cliniche più ampie, per meglio identificare i biomarcatori microbici, circolanti e intratumorali che permettano di selezionare i pazienti con maggiori probabilità di beneficiare della terapia del melanoma basata sul microbioma” scrivono gli autori. Tali studi potrebbero consentire di identificare il gruppo di batteri capaci di far sì che pazienti inizialmente resistenti siano in grado di rispondere alla terapia con anti PD-1.

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