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Coronavirus: maggiore deficit vitamina D nei pazienti

Vitamina D e Covid-19, deficit vitaminico più frequentemente associato a pazienti in terapia intensiva secondo uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Endocrinology

Vitamina D e Covid-19, deficit vitaminico più frequentemente associato a pazienti in terapia intensiva secondo uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Endocrinology

Nei mesi scorsi si è parlato spesso, prevalentemente a livello speculativo, di correlazioni tra deficit vitaminico D e Covid-19. Ora, uno studio osservazionale retrospettivo recentemente pubblicato sotto forma di comunicazione breve (Lettera all’editore) sulla rivista Clinical Endocrinology sembra suffragare le ipotesi summenzionate, dimostrando che i pazienti con Covid-19 necessitanti di ricovero in Terapia Intensiva sembrerebbero essere afflitti più frequentemente da deficit di vitamina D rispetto a quelli gestiti normalmente nei reparti.

Razionale e disegno dello studio
“I recettori per la vitamina D – ricordano gli autori dello studio  – sono espressi in misura elevata nei linfociti T e B, suggerendo, pertanto, un ruolo nel modulare la risposta immunitarie innata e quella adattativa. E’ noto che i livelli di vitamina D raggiungono il loro nadir alla fine della stagione invernale e che bassi livelli di questa vitamina sono associati ad un innalzamento del rischio di infezioni acute a carico del tratto respiratorio durante l’inverno, mitigate dalla supplementazione vitaminica D”.

In attesa dei risultati dei trial clinici che prevedono la supplementazione di vitamina D nella Covid-19, gli autori di questa comunicazione breve hanno presentato i risultati ottenuti in uno studio monocentrico e retrospettivo, nel corso del quale sono stati analizzati i dati di 134 pazienti ospedalizzati, risultati positivi al virus SARS-CoV-2 e affetti da Covid-19, dei quali erano noti i livelli sierici di 25(OH)D all’ospedalizzazione.
I ricercatori hanno valutato la prevalenza del deficit vitaminico D, la compliance ai protocolli locali di trattamento e la relazione esistente tra i livelli sierici al basale di 25(OH)D con alcuni markers di severità della Covid-19 e con la mortalità.

Risultati principali
All’interno della coorte considerata, il 66,4% dei pazienti era in condizioni di insufficienza vitaminica D, definita da livelli compresi tra 25 nmol/l e 50 nmol/l; il 37,3% dei pazienti presentava una condizione di deficit vitaminico D, definito da livelli di 25(OH)D <25 nmol/l; il 21,6% dei pazienti, invece, presentava un deficit severo di vitamina D, definito da livelli sierici di 25(OH)D uguali o inferiori a 15 nmol/l.

Dall’analisi dei dati è emerso che i pazienti ricoverati in Terapia Intensiva (n=42) erano più giovani di quelli ricoverati in reparto (età media: 61 anni vs. 76 anni; p<0,001), erano più frequentemente affetti da ipertensione (68,6% vs. 40,5%; p<0,01), mostravano una frequenza respiratoria al basale più elevata (media: 24,8 atti respiratori/minuto vs. 21,5/minuto; p=0,01) e si caratterizzavano per livelli più elevati di CRP (media: 143,4 mg/ml vs. 107,9 mg/ml; p=0,045).

I livelli medi di 25(OH)D sono risultati sovrapponibili tra gruppi (media: 33,5 nmol/l vs. 48,1 nmol/l; P = 0,3); tuttavia, solo il 19% dei pazienti in terapia intensiva mostrava livelli di 25(OH)D superiori a 50 nmol/l vs. 39,1% di quelli ricoverati in reparto (p=0,02).

Nel complesso, il 55,8% dei pazienti era stato sottoposto a supplementazione vitaminica D.

I ricercatori non hanno osservato un’associazione con il deficit di vitamina D e la mortalità, probabilmente in ragione delle piccole dimensioni numeriche del campione di pazienti e della diagnosi e del trattamento tempestivo del deficit vitaminico D.

A questo riguardo, i ricercatori hanno sottolineato che “…studi già presenti in letteratura avevano evidenziato una possibile associazione tra il deficit di vitamina D e la mortalità da Covid-19. Al contrario, il nostro studio non ha mostrato l’esistenza di un’associazione significativa tra il deficit vitaminico D e la mortalità, un dato per non inatteso in ragione del nostro protocollo di trattamento proattivo, della piccola numerosità del campione di pazienti e della natura osservazionale della nostra analisi”.

Riassumendo
In conclusione, scrivono i ricercatori, la maggior prevalenza del deficit vitaminico D rilevata tra i pazienti necessitanti di ricovero in terapia intensiva per Covid-19 suggerisce come questa condizione carenziale potrebbe rappresentate un determinante da non sottovalutare associato alla severità della Covid-19.

“Tali dati preliminari – aggiungono – suggeriscono di dare nuovo slancio all’implementazione, al disegno e alla interpretazione dei trial clinici in corso e di quelli futuri, al fine di sondare un possibile ruolo terapeutico della vitamina D nel trattamento della malattia Covid-19”.

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