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Tromboembolismo venoso: inibitori di TNF-alfa riducono il rischio

Rivaroxaban a bassa dose riduce il rischio i pazienti COVID-19 ospedalizzati con un alto rischio di tromboembolia venosa

Gli inibitori di TNF-alfa riducono il rischio di tromboembolismo venoso nei pazienti affetti da artrite reumatoide secondo una nuova ricerca

Il rischio di tromboembolismo venoso tende nei pazienti affetti da artrite reumatoide tende, praticamente, a dimezzarsi se si impiegano farmaci anti-TNF in luogo dei DMARDcs. A questi risultati è giunto uno studio basato sul registro tedesco RABBIT; presentato nel corso del congresso annuale EULAR, dal quale, però, è anche emerso come due fattori di rischio ulteriori (età>65 anni e livelli elevati di CRP) contribuiscano ad innalzare questo rischio (1).

I presupposti dello studio
La trombosi rappresenta un evento di importante rilevanza in clinica. In presenza di tromboembolismo venoso (TEV), i processi della coagulazione hanno luogo all’interno di un vaso sanguigno e possono influenzare la circolazione del sangue.

Una diagnosi e un trattamento precoci sono, pertanto, fondamentali in quanto una trombosi venosa profonda alla gamba può essere responsabile di embolia polmonare potenzialmente fatale.
Nei pazienti con artrite reumatoide (AR), in ragione dell’infiammazione cronica che sottende la malattia, il rischio di trombosi venosa profonda e di trombosi polmonare è 2-3 volte più elevato rispetto alla popolazione generale (2).

“In presenza di malattie autoimmunitarie come l’AR – ha spiegato il prof. Iain McInnes (Università di Glasgow, Scozia) – Presidente EULAR) nel corso della conferenza stampa di apertura del Congresso – il sistema immunitario allestisce una risposta “self”, causando una infiammazione sistemica. Per questo, bisogna tenere in conto sempre il rischio di trombosi nelle persone che sono affette da AR”.
I fattori che promuovono la trombosi nei pazienti affetti da AR e i farmaci potenzialmente in grado di ridurre il rischio trombotico sono stati oggetto di due studi: uno studio svedese (3) pubblicato prima del Congresso e uno tedesco presentato in questa assise (quest’anno virtuale) (1).

Lo studio svedese
Lo studio di coorte svedese aveva cercato di rispondere alla domanda se il grado di attività di malattia avesse un impatto sul rischio trombotico. A tal proposito, l’equipe di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma che ha realizzato lo studio ha passato al setaccio i dati relativi a 46.311 pazienti con AR del registro SRQ (the Swedish Rheumatology Quality Register)  relativi ad un periodo di 12 anni.

Avvalendosi del punteggio DAS28 per la misurazione dell’attività di malattia nell’AR, i ricercatori hanno documentato l’esistenza di una connessione stretta tra l’attività di malattia e il rischio di TEV: nei pazienti con attività di malattia elevata, infatti, un paziente su 100 è andato incontro a TEV l’anno successivo, un incremento di più di die volte rispetto a quello osservato in pazienti in remissione.

Lo studio tedesco
Lo studio presentato al Congresso si è proposto di rispondere alla domanda se il rischio trombotico fosse ridotto dall’impiego di farmaci biologici rispetto ai DMARDcs.

Coordinato dal dr. Martin Schäfer (German Rheumatism Research Center, Berlino, Germania), il team di ricercatori coinvolto ha analizzato i dati relativi a più di 11.000 pazienti con AR del registro tedesco RABBIT (Rheumatoide Arthritis: Beobachtung der BiologikaTherapie) – un registro nazionale che monitora l’efficacia e la sicurezza delle misure di trattamento contro l’AR nella pratica clinica reale.

I farmaci utilizzati da questi pazienti erano, tra i DMARDcs, MTX, sulfasalazina e leflunomide. Tra i farmaci biologici, invece, vi erano adalimumab, certolizumab pegol, etanercept, golimumab e infliximab, rituximab, sarilumab, e tocilizumab e abatacept.

Dai risultati è emerso che i pazienti in trattamento con farmaci anti-TNF o altri farmaci biologici mostravano, in media, livelli più elevati in partenza di CRP e una maggiore prevalenza di malattie CV rispetto a quelli che iniziavano un trattamento con DMARDcs.

L’ hazard ratio di eventi seri di TEV nei pazienti in trattamento con farmaci anti-TNF è stato pari a 0,53 (IC95%: 0,33-0,86) rispetto ai DMARDcs, mentre l’hazard ratio di eventi seri di TEV nei pazienti in trattamento con farmaci biologici diversi dai farmaci anti-TNF è stato pari a 0,66 (IC95%: 0,40 – 1,09).

Livelli di CRP >5 mg/l (HR=2,09; IC95%= 1,39-3,14) e un’età al di sopra dei 65 anni (HR=2,96; IC95%= 1,94-4,52) hanno innalzato il rischio di eventi seri di TEV, mentre una migliore funzione fisica è risultata associata ad un ridotto rischio di TEV.

Tra i limiti riconosciuti dello studio è stata ricordata la natura osservazionale, che non consente di stabilire relazioni causali. Non si può neanche escludere che gli inibitori di IL-6 abbiano effetti simili ai farmaci anti-TNF, ma lo studio non aveva la potenza statistica sufficiente per determinarlo. Tra i punti di forza, invece, è stato sottolineato l’input, a cadenza semestrale, dei dati sui fattori di rischio dei pazienti da parte dei reumatologi partecipanti alla sperimentazione.

Riassumendo
I dati del registro RABBIT dimostrano chiaramente che è possibile ridurre il rischio di trombosi mediante il ricorso al trattamento con DMARDb.

Questa è un’informazione importante, soprattutto in tempi di pandemia da nuovo Coronavirus, in quanto anche la trombosi e l’embolia polmonare giocano un ruolo rilevante nell’infezione responsabile di Covid-19.
Pertanto, alla luce di quanto detto, è particolarmente raccomandata la vigilanza per lo sviluppo di eventi trombotici durante il trattamento delle persone affette da AR ed è vitale non sospendere le terapie per mantenere l’attività di malattia sotto controllo che, come dimostra anche lo studio svedese.

1) Schäfer M et al. TNF inhibitors are associated with a reduced risk of venous thromboembolism compared to csDMARDs in RA patients. EULAR 2020; Abs. OP0012
Leggi

2) Chung W et al.: Rheumatoid arthritis increases the risk of deep vein thrombosis and pulmonary thromboembolism: a nationwide cohort study. Annals of the Rheumatic Diseases 2014;73:1774–1780.

3) Molander V et al. Does the risk of venous thromboembolism vary with disease activity in rheumatoid arthritis? DOI: 10.1136/annrheumdis-2020-eular.353

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