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Colangite biliare primitiva: denosumab dà benefici

La Colangite Biliare Primitiva colpisce oggi, in Italia, oltre 18.000 persone. Dietro questo dato si nascondono però molti casi sommersi

Colangite biliare primitiva: il farmaco denosumab, la cui molecola è già utilizzata per il trattamento dell’osteoporosi, potrebbe portare benefici secondo un gruppo di esperti

Denosumab, un anticorpo monoclonale indicato nell’osteoporosipotrebbe avere un ruolo anche nel trattamento della colangite biliare primitiva (CBP): lo sostengono quattro esperti in una segnalazione alla rivista Hepatology. Fra gli autori della missiva anche il prof. Pietro Invernizzi, direttore della Divisione di Gastroenterologia e del Centro per le Malattie Autoimmuni del Fegato (Centro MAF) dell’Università di Milano-Bicocca presso l’Ospedale San Gerardo di Monza.

La CBP è una malattia epatica colestatica cronica, caratterizzata dalla progressiva distruzione dei dotti biliari intraepatici, dall’infiammazione del tratto portale e dalla fibrosi, che può eventualmente evolvere in una malattia del fegato allo stadio terminale”, spiega la dr.ssa Laura Cristoferi, epatologa del Centro MAF di Monza. “Anche se l’esatta eziologia della CBP rimane sconosciuta, è ampiamente riconosciuto che lo sviluppo della malattia richieda uno o più fattori ambientali che innescano una risposta autoimmune in individui geneticamente predisposti. L’osteoporosi è una complicanza extraepatica comune nei pazienti con CBP, che può compromettere la loro qualità di vita”.

Denosumab è un anticorpo monoclonale completamente umano diretto contro la proteina RANKL (ligando dell’attivatore recettoriale del fattore nucleare kB), ed è ampiamente usato per il trattamento dell’osteoporosi per la sua capacità di aumentare la densità minerale ossea, inibendo lo sviluppo e l’attività degli osteoclasti e riducendo così il riassorbimento osseo. Uno studio recente ha riportato l’efficacia e la sicurezza del trattamento a 3 anni con denosumab per l’osteoporosi anche nei pazienti con CBP. I quattro specialisti, nella lettera alla rivista Hepatology, hanno confermato le conclusioni di questo studio, per poi aggiungere ulteriori prove a supporto.

Evidenze consolidate suggeriscono l’importanza della via di segnalazione molecolare del RANKL nell’autoimmunità, con il sistema immunitario e l’apparato scheletrico che sono strettamente interconnessi. Inoltre, i modelli murini privi dei geni RANK o RANKL mostrano difetti nel numero di cellule B e nell’omeostasi che coinvolge le vie di segnalazione IL-10 e CD40, e l’analisi delle varianti genetiche ha rivelato che il gene RANKL è vicino a una parte del genoma dove si trovano varianti associate a un aumentato rischio di sviluppare la CBP, suggerendo un ruolo dell’asse RANK-RANKL nella patogenesi della malattia”, scrivono gli autori.

Il gruppo, inoltre, aveva dimostrato, in uno studio di qualche anno fa, che i colangiociti dei pazienti con CBP esprimono elevati livelli della proteina RANK e che gli infiltrati infiammatori attorno ai dotti biliari nella CBP sono molto ricchi di cellule che esprimono RANKL. Fatto ancora più importante, il livello epatico di RANKL è stato associato alla gravità della colangite biliare primitiva. “I nostri dati hanno quindi suggerito fortemente un ruolo dell’asse RANK-RANKL nell’attivazione immunitaria innata nella CBP e ipotizziamo che i colangiociti danneggiati, che esprimono alti livelli di RANK, portino al reclutamento di cellule RANKL-positive e, in definitiva, ai classici infiltrati del tratto portale”, concludono gli autori. “Nel loro insieme, una serie di prove, vecchie e nuove, suggerisce che denosumab potrebbe avere un ampio ruolo benefico nel trattamento della CBP, oltre che dell’osteoporosi”.

“Sono dati estremamente interessanti che, se confermati in uno studio clinico, potrebbero aprire nuove prospettive farmacologiche per i pazienti che non rispondono alle terapie convenzionali e che sono affetti da osteoporosi”, ha commentato il prof. Pietro Invernizzi. “Nell’era della medicina di precisione, la possibilità di fornire al paziente la migliore terapia che abbia effetto su due condizioni morbose concomitanti è sicuramente una prospettiva promettente”.

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