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Da Lima a Pechino: esplode il fenomeno Kentuki

Da Lima a Zagabria, a Pechino: esplode il fenomeno del Kentuki. Arriva in libreria il nuovo romanzo di Samanta Schweblin

Da Lima a Zagabria, a Pechino: esplode il fenomeno del Kentuki. Arriva in libreria il nuovo romanzo di Samanta Schweblin

Immaginate di andare in un negozio e di comprare qualcosa che è più di un peluche, ma meno di un cane. Forse. Sicuramente più inquietante. Un pupazzetto che ha la forma di un topo o di un coniglio o di un drago, e che comincerà a seguirvi ovunque, silenzioso ma fin troppo presente. E’ il kentuki (si pronuncia come è scritto), un ‘animaletto’ che si diffonde sempre più velocemente e gironzola nelle case di tutto il mondo, raccontandoci la vita di chi quel pupazzo l’ha comprato e di chi invece lo fa muovere: due persone che non si conoscono, sono in posti lontanissimi del pianeta, che parlano anche una lingua diversa, ma fra cui si stabilisce, in tutti i sensi, una ‘connessione’. E’ questo il canovaccio del romanzo di Samanta Schweblin, classe 1978, scrittrice argentina trapiantata a Berlino, considerata fra le voci più interessanti della sua generazione (“Kentuki” di Samanta Schweblin, edizioni Sur).

Schweblin ha parlato del suo libro a Bologna, ospite de La Confraternita dell’Uva – che è insieme libreria, caffè e wine bar –  insieme a Edoardo Balletta e tradotta da Giulia Zavagna. La scrittrice, scherzando ma neanche troppo, dà subito quello che sembra essere un consiglio: “Di solito quando leggo le quarte di copertina, le bandelle dei miei libri, mi annoio moltissimo, non lo comprerei mai. Le quarte di copertina sono la cosa peggiore che possa succedere a uno scrittore”. L’Agenzia di stampa Dire (www.dire.it) le ha rivolto qualche domanda.

Come ti è venuta l’idea di “Kentuki”?

“E’ un’idea apparsa dal nulla, riflettevo sulla tecnologia, di come i droni, a disposizione di tutti, ci permettano di guardare nelle case dei nostri vicini, nei giardini. Un’amica di Berlino ha un robot aspirapolvere, che sa come muoversi per casa, memorizza la quantità di sporco che deve aspirare: allucinante! E poi ho passato un intero anno lavorando su Skype, vedendo le persone tramite la tecnologia. E da tutto questo è venuta fuori l’idea di Kentuki. Da tempo leggo la letteratura contemporanea, quella degli ultimi 10-15 anni, rendendomi conto che sta schivando il tema della tecnologia. Per esempio quando due amiche devono parlare, una delle due sale in auto per andare dall’altra. Nel 2019!”. E invece la realtà è che “stiamo attaccati molto tempo al nostro telefono, il nostro telefono fa parte del nostro corpo”. Dunque, “volevo scrivere di tecnologia, senza cadere in molti tecnicismi“. Così “un giorno mi è venuta in mente l’idea del kentuki che mi è sembrata la soluzione per parlare delle nostre relazioni attraverso le tecnologie senza cadere nei tecnicismi”.

Con “una scrittura estremamente controllata- sottolinea Balletta- racconti quattro storie maggiori e altre minori”, che ricorrono meno, in cui si narrano “le relazioni tra gli esseri umani e questa nuova tecnologia” che fa “da compagnia agli anziani, a un bambino per aiutarlo a superare la separazione dei genitori e che a volte sfocia in episodi violenti”.

In realtà, risponde Schweblin, “il kentuki è una connessione tra due persone, una relazione molto simile a quella che si ha con un animale domestico. Non importa il dispositivo, importa la relazione. Il kentuki assiste i figli o è testimone di scene violente”, ma non sa come intervenire “perché magari non capisce la lingua o ignora perfino il posto in cui si trova. Il romanzo di fatto tratta il fallimento di un nuovo dispositivo lanciato sul mercato”. Il libro insiste anche sulla dialettica servo-padrone, ma “colui che ha il kentuki, il padrone, in realtà non è padrone di niente, è colui che compra la connessione ad avere il controllo, anche perché il kentuki non si può spegnere. I teorici della distopia direbbero che queste non sono riflessioni sulla distopia che si occupa di potere e non di tecnologia, ma forse dobbiamo ripensare a cosa è oggi la distopia perché oggi il potere è la tecnologia“. Oggi, insiste Schweblin, “la tecnologia è la grande lingua comune, molto più dell’inglese“. Quella lingua che permette “a me e a una donna col burqa sulla metro di usare entrambe whatsapp”. Ovviamente “non arriva a tutti nello stesso modo, ma credo che non ci sia niente altro che raggiunga così tanta gente tutta insieme”.

In Kentuki si parla anche di arte.

“In tutti i miei libri- risponde la scrittrice argentina- appare un po’ l’idea dell’arte, dell’arte contemporanea. La mia prima esperienza formativa con l’arte ce l’ho avuta nel laboratorio di incisione più grande di Buenos Aires, di mio nonno Vincenzo; è lo spazio in cui mi sono formata a livello emozionale. Mi faceva impressione come gli adulti in quello spazio” avessero reazioni “estremamente infantili. Entravano in una sorta di spazio sacro. Una sfumatura di rosso diversa dall’altra poteva rovinare un anno di lavoro. Mi sembrava molto affascinante, ma anche molto infantile”. Uno degli episodi di “Kentuki” è ambientato a Oaxaca, capitale dell’omonimo Stato del Messico: “A Oaxaca- spiega Schweblin- ci sono stata davvero per tre mesi e gran parte delle cose che racconto è successa realmente. Tu ti alzavi alle tre di mattino e trovavi persone che facevano arte. Molto interessante, ma questo interesse sfiorava anche a volte il ridicolo. E anche la vita degli scrittori a volte è così: partecipazione ai festival…non si può soltanto scrivere, ma bisogna anche mostrarsi, parlare in pubblico. Tutto questo mi sembra assolutamente stupido, ma si cerca di fare il proprio lavoro meglio che si può”.

Schweblin parla anche delle difficoltà incontrate nella stesura di Kentuki.

“Nella scrittura di questo libro mi sono trovata fuori dalla mia comfort zone per tantissimi motivi. Innanzitutto era un romanzo e io sono abituata a scrivere racconti. Poi ho scritto quasi sempre in prima persona e qui era necessario scrivere in terza persona. Kentuki– racconta ancora Schweblin- è il mio quinto libro, ma è la prima volta in cui ho dovuto affrontare la difficoltà di scrivere di personaggi di altre culture che non sono la mia, che non conosco, ed è stato assolutamente difficile e scomodo, ma necessario per l’argomento trattato. E’ venuta fuori una quantità incredibile di errori in tutte queste storie: chiamiamoli un rumore di fondo, un disturbo di fondo, più che errori”. Per rimediare, “ho fatto leggere ogni storia a un lettore diverso perché potesse comprenderla a fondo: quella che si svolge in Cina alla mia editrice cinese, ho un amico molto caro che sta a Zagabria e a lui facevo leggere la storia ambientata in Croazia. Sembra impossibile scrivere dell’altro, eppure di questo è fatta tutta la letteratura”, conclude la scrittrice argentina.

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