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Batteri resistenti: terapia fagica è un’alleata

immunoncologia

Batteri resistenti, un aiuto dalla terapia fagica secondo uno studio italiano del “Fatebenefratelli – Sacco”  presentato al XVIII Congresso Nazionale SIMIT

Uno studio italiano del “Fatebenefratelli – Sacco”spiega l’opportunità di utilizzare la terapia fagica come nuova possibilità terapeutica contro le resistenze batteriche, laddove gli antibiotici si rivelano inefficaci. I risultati dello studio sono stati presentati al XVIII Congresso Nazionale SIMIT, Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, svoltosi a Palermo.

“E’ una situazione complessa perché in Europa sono presenti dei vincoli, dettati dalle regolamentazioni nazionali ed europee, che rendono difficili ad oggi l’impiego della fagoterapia”, spiega Mario Corbellino, Dipartimento Malattie Infettive Ospedale Fatebenefratelli – Sacco, Milano autore dello studio presentato a Palermo originato dai ricercatori di Tblisi.

Potrebbero essere, in un futuro prossimo, neanche tanto lontano, le nuove e potenti armi in grado di contrastare le principali minacce umane in fatto di infezioni batteriche. I fagi, infatti, sono virus capaci di infettare i batteri sino a distruggerli. E se in passato questi sono stati utili a combattere colera e, addirittura, la peste bubbonica, recenti studi sembrano sottolinearne l’importanza applicati a malattie quali  infezioni osteoarticolari e dissenterie.

La batteriofago-terapia, o terapia fagica, è basata sull’utilizzo di virus (batteriofagi o fagi) specifici ed esclusivi dei batteri. I batteriofagi sono virus naturali dei batteri e risultano estremamente numerosi. Storicamente, tale terapia è stata adottata per la prima volta in Francia, in era pre-antibiotica, in seguito alla scoperta, avvenuta nel 1915, di virus in grado di infettare e distruggere le cellule batteriche; poi si è diffusa rapidamente in tutta Europa, Italia inclusa.

Successivamente, l’utilizzo dei fagi a scopo terapeutico è stato progressivamente abbandonato nei paesi occidentali, contestualmente all’avvento dei chemio-antibiotici mentre si è sviluppato nei paesi dell’Ex-Unione Sovietica, dove questo tipo di terapia è proseguita ed attualmente utilizzata.

“Per la terapia fagica – spiega il Prof. Massimo Andreoni, Direttore Scientifico della Simit, Responsabile dell’Unità Operativa Complessa Malattie Infettive – Tor Vergata, Roma – si deve isolare prima il batterio causa di infezione e quindi vengono testati i fagi di cui, in alcuni centri nel mondo, se ne possiedono in grande numero. A questo punto si allestisce  una  preparazione che contiene i fagi più attivi nei confronti del batterio da eliminare e la preparazione viene somministrata al paziente per via orale o parenterale”.

E’ una terapia che può essere applicata a qualunque tipo di infezione, sia in ambito umano e veterinario, purché si conosca a priori il microorganismo responsabile della patologia che si vuole trattare. Questa è la prerogativa essenziale che distingue la fagoterapia dalle terapie antibiotiche: occorre avere l’isolato del microorganismo che causa questa infezione.
La fagoterapia ha visto, nel corso dei decenni, numerose applicazioni, dalle dissenterie al colera, dalla peste bubbonica alle infezioni osteoarticolari. In particolare, riguardo alle epidemie di colera é stato recentemente dimostrato che con l’espandersi della epidemia si osserva nelle acque reflue il concomitante aumento di fagi litici specifici nei confronti del vibrione.

Tale fenomeno, superata una certa soglia, precede lo spontaneo recedere della epidemia. Numerose anche quelle in ambito militare, per trattare le ferite sporche cui sono soggetti i militari.

“E’ una situazione complessa  – spiega Mario Corbellino, Dipartimento Malattie Infettive Ospedale Fatebenefratelli – Sacco, Milano – perché in Europa sono presenti dei vincoli, dettati dalle regolamentazioni nazionali ed europee, che rendono difficile ad oggi l’impiego della fagoterapia. Dovremo aspettare un periodo abbastanza lungo, perché c’è ancora molto da fare in tal senso. Quel che manca, ancora, sono degli studi clinici randomizzati che consentono in maniera chiara di dimostrare l’efficacia di questa forma di trattamento, associato o meno, alla terapia antibiotica”.

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