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Lb-1: il buco nero che non dovrebbe esistere

Team italo-svedese misura la velocità di rotazione del buco nero nella galassia M87. Impiegata per la prima volta una tecnica che sfrutta una proprietà particolare della luce

The Event Horizon Telescope (EHT) — a planet-scale array of eight ground-based radio telescopes forged through international collaboration — was designed to capture images of a black hole. In coordinated press conferences across the globe, EHT researchers revealed that they succeeded, unveiling the first direct visual evidence of the supermassive black hole in the centre of Messier 87 and its shadow. The shadow of a black hole seen here is the closest we can come to an image of the black hole itself, a completely dark object from which light cannot escape. The black hole’s boundary — the event horizon from which the EHT takes its name — is around 2.5 times smaller than the shadow it casts and measures just under 40 billion km across. While this may sound large, this ring is only about 40 microarcseconds across — equivalent to measuring the length of a credit card on the surface of the Moon. Although the telescopes making up the EHT are not physically connected, they are able to synchronize their recorded data with atomic clocks — hydrogen masers — which precisely time their observations. These observations were collected at a wavelength of 1.3 mm during a 2017 global campaign. Each telescope of the EHT produced enormous amounts of data – roughly 350 terabytes per day – which was stored on high-performance helium-filled hard drives. These data were flown to highly specialised supercomputers — known as correlators — at the Max Planck Institute for Radio Astronomy and MIT Haystack Observatory to be combined. They were then painstakingly converted into an image using novel computational tools developed by the collaboration.

Lb-1 si trova a 15mila anni luce da noi e ha una massa superiore al limite finora ritenuto per un buco nero stellare: è circa 70 volte quella del Sole

Quanto sono grandi i buchi neri prodotti dal collasso di stelle massicce? Gli astronomi stimano che nella nostra galassia, la Via Lattea, ci siano circa 100 milioni di buchi neri, e che nella maggior parte dei casi si tratti di buchi neri piuttosto leggeri: non più di 15 volte la massa del Sole. Ora, però, un team internazionale di scienziati guidato da Jifeng Liu, astrofisico all’Osservatorio astronomico nazionale di Pechino dell’Accademia cinese delle scienze, e del quale fa parte anche Mario Lattanzi dell’Inaf di Torino, ha individuato un buco nero stellare con una massa spaventosa: circa 70 volte quella del Sole.

«Non so se sia il più grande mai trovato, ma la cosa straordinaria è che, stando alle teorie attuali dell’evoluzione stellare, buchi neri stellari così massicci non dovrebbero nemmeno esistere, perlomeno non nella nostra galassia», dice Lattanzi da Shanghai, dove si trova in questi giorni per lavorare insieme ad alcuni dei colleghi con i quali ha firmato l’articolo appena pubblicato su Nature. «In realtà, indizi della loro esistenza ce ne sono, ma arrivano da “osservazioni” di tipo del tutto diverso e indipendente: i segnali registrati dagli interferometri per onde gravitazionali Ligo e Virgo, attribuiti alla collisione fra buchi neri molto più massicci dei tipici buchi neri stellari».

«Il mostro che abbiamo appena scoperto», aggiunge Liu, «si trova ad appena 15mila anni luce da noi. Lo abbiamo chiamato Lb-1, dal nome del nostro team. Ora la palla passa di nuovo ai teorici, ai quali toccherà spiegare come possa essere avvenuta la sua formazione in un ambiente con metallicità analoga a quella del Sole».

Ma la massa monstre non è l’unico tratto insolito di questo buco nero. Del tutto fuori scala è anche l’ampiezza dell’orbita che percorre. Lb-1 si trova infatti in un sistema binario, e la compagna che gli danza attorno – una stella di classe B – impiega ben 79 giorni per compiere un giro completo. Altrettanto anomalo è il suo “silenzio”: a differenza di pressoché tutti i buchi neri stellari fino a oggi identificati, Lb-1 non emette raggi X, e questo lo rende anche assai difficile da individuare.

«Fino a pochi anni fa, i buchi neri di origine stellare potevano essere scoperti solo quando divoravano gas da una stella compagna», spiega infatti Liu. «Questo processo produce potenti emissioni di raggi X che, rilevate dai telescopi, mostrano la presenza dell’oggetto collassato. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei buchi neri presenti nella nostra galassia di solito non è impegnata in banchetti cosmici, e resta dunque per la maggior parte del tempo nell’oscurità completa. Ecco perché sono solo circa due dozzine su 100 milioni i buchi neri galattici a oggi identificati con certezza e misurati».

Come hanno dunque fatto Liu e colleghi per individuare Lb-1? Hanno utilizzato una tecnica completamente diversa, basata non su un telescopio per raggi X bensì su un telescopio ottico da 4 metri, Lamost, con il quale dalla Cina nord-orientale sono andati alla ricerca di stelle che orbitano attorno a un oggetto invisibile.

«Lo studio è sostanzialmente spettroscopico e reso possibile dallo spettrografo multifibre – ne ha a disposizione ben quattromila! – a bassa risoluzione di Lamost», spiega Lattanzi, «che si trova su una montagna di circa di 1000 metri in località  Xinglong, a nordest di Pechino, ed è raggiungibile in due ore di auto. Per oltre due anni Lamost ha tenuto d’occhio circa tremila stelle brillanti, compiendo in media circa 30 misure di “velocità radiale” per ciascuna».

La misura delle variazioni della velocità radiale consente di individuare le stelle che si comportano come se fossero in un sistema binario, e se una di queste non ha una compagna visibile ecco che scatta l’allarme: potrebbe esserci un buco nero. È ciò che è accaduto osservando una brillante stella di classe spettrale B (di circa 12ma magnitudine) con una massa pari a 8 volte la massa solare. Analizzando il suo moto orbitale, è emerso che stava ruotando in circa 79 giorni attorno a un oggetto invisibile di 70 masse solari: il buco nero Lb-1, appunto.

«Abbiamo poi osservato ulteriormente il sistema Lb-1 con spettrografi ad altissima risoluzione (e quindi precisione): 21 volte con lo spettrografo Osiris al telescopio spagnolo da 10 metri GranTeCan, alle Canarie, e 7 volte con Hires all’osservatorio del Keck. Questi dati ci hanno permesso di ricostruire un’orbita spettroscopica piuttosto precisa», spiega Lattanzi. «Importante anche il contributo del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea, i cui dati astrometrici, rilasciati il 25 aprile dello scorso anno, ci hanno permesso di confermare in modo chiaro la natura “non singola” di questa sorgente, avvalorando quindi in modo indipendente la sua appartenenza ad un sistema binario, ovvero di stella compagna del buco nero».

Ma il lavoro non si ferma certo qui. Liu e il suo team – che comprende scienziati provenienti dalla Cina, dall’Australia, dai Paesi Bassi, dalla Polonia, dalla Spagna, dagli Stati Uniti e, appunto, dall’Italia – stanno già conducendo una nuova campagna di osservazione per misurare le proprietà di Lb-1 in modo ancora più preciso e scoprire altri sistemi simili. «Vogliamo scoprire numerose dozzine di buchi neri», dice Liu, «per esplorare le popolazioni di questi oggetti in tutta la loro varietà e comprendere meglio le fasi finali della vita delle stelle massicce».

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