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La valle dell’Eden, a Prato va in scena il capolavoro americano di Steinbeck

Il regista Antonio Latella si confronta con un grande classico americano, celebre anche per il film con James Dean, che racconta l’eterna storia tra bene e male in una saga familiare di grande respiro. Dal 20 novembre al Metastasio

La valle dell’Eden, regia di Antonio Latella. Foto Brunella Giolivo

Al Teatro Metastasio, dal 20 al 24 novembre, in una messinscena composta di due parti, Antonio Latella dirige LA VALLE DELL’EDEN, capolavoro della narrativa d’oltreoceano dello scrittore Premio Nobel nel 1962 John Steinbeck. Un’opera che si pone nel solco della storia americana per riflettere sul destino di quella umana, una monumentale saga familiare che racconta una fase cruciale della storia americana, tra la fine della Guerra civile e gli ultimi anni della Prima guerra mondiale. Una storia che, dopo essere stata portata sullo schermo da Elia Kazan con la celebre interpretazione di James Dean, approda per la prima volta sul palcoscenico in uno spettacolo evento composto di due parti, prodotto da Emilia Romagna Teatro – Teatro Metastasio di Prato – Teatro Stabile dell’Umbria (20 e 21 novembre 1ª parte – ore 20.45, 22 e 23 novembre 2ª parte -venerdì ore 20.45, sabato ore 19.30; 24 novembre maratona 1ª parte ore 16.30 e 2ª parte ore 20.45).

LA VALLE DELL’EDEN è «la più grande storia di tutte: la storia del bene e del male–scriveva lo stesso Steinbeck in una lettera al suo editore e curatore Pascal Covici -e aggiunge -E così inizierò il mio libro indirizzato ai miei ragazzi. Penso che forse sia l’unico libro che abbia mai scritto. Penso che ci sia un solo libro per ogni uomo». Un’epopea che poggia le sue basi nella Bibbia, sul racconto di Caino e Abele, come indicano i nomi dei fratelli protagonisti del romanzo, Charles Trask e Adam Trask, che a sua volta chiama i suoi due gemelli, Caleb e Aaron. Caino è il primogenito di Adamo ed Eva, un contadino che lavora duro per rendere fertile il terreno; Abele un pastore che si prende cura del bestiame. Entrambi si sacrificano a Dio, eppure questi accetta solo gli sforzi di Abele. Caino uccide il fratello per gelosia, ricevendo in cambio la condanna a essere “fuggitivo e vagabondo”, verso Nord, “a Est di Eden”.

L’adattamento della drammaturga Linda Dalisi, costruito insieme ad Antonio Latella, si concentra sul percorso di vita di Adam Trask, figlio di un padre che lo costringe ad arruolarsi e andare in guerra, fratello in disputa nell’affrancamento dai legami familiari, poi marito desideroso del suo Eden, infine egli stesso padre di due figli. La storia, quindi, attraversa tre generazioni (nel passaggio di secolo tra ’800 e ’900) e si svolge per lo più nella valle del Salinas, in California, sullo sfondo dell’utopica corsa all’Ovest.

Il lavoro teatrale approda sul palco dopo circa due anni di un’intensa ricerca svolta da Antonio Latella e Linda Dalisie rivolta non tanto a trovare delle risposte, quanto alla formulazione di nuove domande. «Ma perché il Dio che tutto sa creò l’imperfezione al centro del suo Eden? Solo per essere chiamato? Ma che cos’è un nome? E perché un istante dopo che si viene al mondo, ancor prima che il lamento del nascituro possa divenire parola, abbiamo bisogno di un nome? Queste stesse domande –scrive Antonio Latella–le trovo al centro di questo meraviglioso romanzo, questa epopea che non ha eguali. John Steinbeck con La valle dell’Eden segna il suo capolavoro letterario, forse perché si scontra con il solo libro capolavoro esistente, la Bibbia. Nel titolo originale East of Eden, tratto dal verso 16 del Libro IV della Genesi, Steinbeck sembra suggerire che siamo fuori dall’Eden non perché figli (del peccato) di Adamo, ma perché figli di Caino. L’Eden lo abbiamo perduto: eravamo l’Eden e ora siamo coloro che lo cercano. Ogni pagina del romanzo ci parla di creazione e di sconfitta eterna. Ogni pagina ci parla di famiglia, di padri, di figli, di fratelli, di gemelli. Ogni pagina ci dice che le madri non ci sono, le madri muoiono, le madri si suicidano, le madri rinnegano i figli e peccano, e la sola madre presente è la terra, che partorisce pietre, e che anche quando è fertile non si fa fecondare». Steinbeck dissemina nell’opera un’infinità di rimandi, significati nascosti, slittamenti di senso che mostrano come una sorta di “albero genealogico della colpa” intervenga, con un influsso misterioso, a condizionare il presunto libero arbitrio dell’uomo. A chiudere il romanzo è infatti la voce di Adam Trask che pronuncia la parola ebraica “Timshel”, il cui significato è “tu puoi”, e che nella Genesi si riferisce proprio alla capacità dell’essere umano di scegliere, di scegliere se essere buono o cattivo: il dilemma che attraversa la vita dei personaggi.

Afferma infatti Lee, il servitore cinese di Adam Trask: «è facile, per pigrizia, per debolezza, rifugiarsi nel grembo della divinità e dire ‘Non ho potuto fare altro, la strada era segnata’. Ma pensate alla superiorità della scelta! Questo sì che fa di un uomo un uomo. Il gatto non può scegliere, l’ape deve fare il miele. Lì la divinità non c’entra». La scelta è quindi uno dei temi fondamentali del romanzo e dello spettacolo: «Che cosa sceglie un uomo? Non è solo una questione biblica, –scrive Linda Dalisi –sulle cui pieghe non voglio addentrarmi, ma anche una questione artistica e creativa. Che cosa sceglie uno scrittore ma anche che cosa sceglie un lettore? Che cosa sceglie un regista ma anche che cosa sceglie un attore?». Il confronto con l’opera di Steinbeck corrisponde in questo lavoro a un incontro con l’essere umano e con la bellezza del pensiero: «A ogni lettura, del romanzo come del copione-aggiunge Dalisi -è chiaro che il centro di tutto è l’Uomo».

 

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