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Malattia di Lyme: diagnosi complessa ma cure efficaci

Malattia di Lyme: attenzione al morso di zecca dopo essere stati in zone ad alto rischio, come boschi o prati con erba alta

Malattia di Lyme, i  sintomi sono vaghi e la diagnosi è complessa, ma i trattamenti esistono e funzionano: meglio rivolgersi a medici informati e preparati

Ubi Ixodes, morbi sunt”: dove ci sono le zecche, ci sono focolai di patologia. Questo è il curioso ma veritiero motto del dott. Ermenegildo Francavilla, direttore dell’Unità Operativa di Malattie Infettive presso l’Ospedale “San Martino” di Belluno, che da anni si occupa di malattia di Lyme, una patologia trasmessa dalle spirochete di Borrelia burgdorferi, un batterio spesso veicolato dalle zecche della specie Ixodes ricinus, piuttosto diffusa in Italia. Il dott. Francavilla ha ripreso la lezione del dott. Giuseppe Caruso, infettivologo suo predecessore che, per primo, aveva descritto alcuni casi di Lyme nell’area del bellunese: perciò l’individuazione di una correlazione tra la presenza delle zecche e il diffondersi della malattia è un risultato che aiuta a fare una stima dell’entità del problema.

UNA MALATTIA PIU’ DIFFUSA DI QUANTO SI SAPPIA

Secondo i dati del Ministero della Sanità, alla fine degli anni ’90, in Italia, risultavano circa un migliaio di casi di malattia di Lyme, un dato che in realtà rappresenta un’ampia sottostima. “I primi casi risalgono ai primi anni ’80 – precisa il dott. Francavilla – e dall’inizio degli anni ’90 si è cominciato a descrivere la patologia, finendo con l’identificare più di 1.500 casi in oltre 20 anni di osservazione. Ma si tratta di un dato non ancora veritiero, perché non tutti i medici che riscontrano la malattia fanno la notifica al Dipartimento di Prevenzione. La segnalazione di malattia alle autorità sanitarie è un gesto fondamentale per ottenere una corretta stima delle dimensioni del problema. Tuttavia è legata a un atto burocratico, e molti sono i medici che trascurano questo passaggio, ragion per cui i numeri della malattia risultano inferiori a quelli reali”.

In Italia, l’area geografica del bellunese è considerata quella a maggior incidenza di patologia, tanto che l’Ospedale di Belluno è stato riconosciuto come Centro di Riferimento Regionale – l’unico in Italia – per la Lyme e la TBE (meningoencefalite da zecche). “La proporzione tra le due malattie è nettamente in favore della malattia di Lyme”, prosegue Francavilla. “Nel nostro reparto, solo nel 2019, i casi di TBE notificati sono stati 12 contro gli oltre 40 di Lyme. In altre regioni, come Liguria ed Emilia Romagna, quest’ultima malattia è stata affrontata con serietà, ma da tante zone d’Italia, in cui la condizione risulta presente, giungono ancora pochissime notifiche”.

UNA DIAGNOSI DIFFICILE

La malattia di Lyme è una patologia multisistemica che coinvolge la cute, il sistema nervoso centrale, il cuore, le articolazioni e l’occhio. Nel 95% dei casi, tuttavia, i segni clinici più frequentemente ascrivibili alla patologia sono di origine cutanea. “In Europa e in Italia, la manifestazione clinica più evidente è l’eritema migrante, una sorta di macula rossastra di forma anulare, spesso riscontrabile sulle cosce o nella zona dell’inguine e delle ascelle. Ha la caratteristica di presentarsi come una lesione centrale che poi si allarga gradualmente”, spiega l’esperto bellunese. “All’eritema possono accompagnarsi sintomi quali febbre, brividi, dolori articolari, astenia e malessere generalizzato”.

Purtroppo, la risposta dell’organismo al batterio si sviluppa tardivamente, sollevando un grosso problema in chiave diagnostica. In effetti, mancano ancora strumenti di laboratorio del tutto attendibili per la diagnosi. “La diagnosi sierologica si effettua tramite l’identificazione, con metodo ELISA, degli anticorpi anti-Borrelia di classe IgG e IgM”, spiega la dott.ssa Marzia Battistel, del Laboratorio Analisi dell’Ospedale “San Martino” di Belluno. “Il test ELISA ha un’ottima sensibilità analitica [la capacità di individuare correttamente i soggetti malati, N.d.R.] ma una bassa specificità [la capacità di identificare correttamente i soggetti sani, N.d.R.]. Pertanto, fatica a distinguere bene i sani dai malati”. Ciò rende necessario integrare il dato di laboratorio con quello clinico.

La diagnosi, dunque, è un connubio tra il referto di laboratorio e la valutazione del clinico, che nei casi in cui sia evidente l’eritema migrante non ha nemmeno bisogno di richiedere il dosaggio degli anticorpi IgG e IgM, e può iniziare la terapia. “Quando il paziente risulta positivo al test ELISA si procede con l’immunoblotun test di conferma di secondo livello”. prosegue Battistel. “In questo caso l’interpretazione può essere difficoltosa per le concomitanti positività a virus erpetici o al virus Epstein-Barr, che possono produrre un risultato falsamente positivo: ciò conferma l’importanza del dato clinico”.

“Infine, esiste un test di terzo livello che si esegue in biologia molecolare”, precisa la dott.ssa Grazia Piccolin, biologa del Laboratorio Analisi presso il medesimo ospedale bellunese. “È un test riservato a casi ristretti in cui si ricerca il DNA su vari campioni per i quali risulta difficile valutare l’andamento anticorpale. Tuttavia, la sua esecuzione non ha significato se il paziente risulta negativo ai primi due test nelle fasi precoci”.

ATTENZIONE AI TEST NON VALIDATI SCIENTIFICAMENTE

Per la malattia di Lyme non esiste, pertanto, una diagnosi che sia esclusivamente laboratoristica o esclusivamente clinica. “Le maggiori società scientifiche accreditate sono perlopiù unanimi sulla diagnosi”, afferma ancora Francavilla. “Quelli appena descritti rappresentano i test ufficialmente riconosciuti, ma bisogna prestare attenzione a coloro che propongono esami diagnostici non validati. Qualcuno suggerisce addirittura l’uso del test di proliferazione linfocitaria, ma non esistono prove concrete e la positività a un test senza evidenza clinica può generare false diagnosi”.

La ricca ma non specifica sintomatologia della malattia di Lyme, unita alle incertezze di laboratorio, ha favorito la proliferazione di false diagnosi, accrescendo i dubbi dei pazienti e di molti medici. “Assistiamo tristemente all’opera di gente incompetente che pone anche diagnosi di neuroborreliosi solo sulla base di una stanchezza generalizzata e del riscontro di un morso di zecca, senza aver mai fatto un esame del liquor, che invece è fondamentale a detta di tutte le linee guida sulla malattia”, avvisa Francavilla.

Per neuroborreliosi si intende l’estensione al sistema nervoso centrale di una patologia infettiva che, come la Lyme, è causata da batteri del genere Borrelia. “Per la diagnosi di neuroborreliosi la ricerca degli anticorpi nel liquor è un criterio imprescindibile secondo tutte le società scientifiche internazionali”, sottolinea l’esperto. “Alcuni pazienti a cui era stata fatta una diagnosi di neuroborreliosi senza rachicentesi si sono poi visti diagnosticare altre patologie e, talvolta, la sclerosi multipla. Il pericolo è dunque di attribuire erroneamente alla malattia di Lyme dei sintomi neurologici che sono in realtà correlati ad altre patologie, che poi, per l’incompetenza di certe figure sanitarie, vengono diagnosticate tardivamente”.

LA TERAPIA È EFFICACE

Per quanto riguarda il trattamento della malattia di Lyme, ancora una volta occorre attenersi ai criteri clinici e di laboratorio suggeriti dalle linee guida. Soprattutto in considerazione del fatto che la terapia esiste e funziona bene. “Quando il medico osserva l’eritema suggerisce l’avvio di una terapia antibiotica che prevede l’impiego di tetracicline nelle forme cutanee e in quelle neurologiche meno gravi”, prosegue Francavilla. “Per le forme sistemiche si raccomanda l’impiego di penicillina o ceftriaxone”.

Tuttavia, anche in ambito terapeutico è emersa l’inadeguatezza di molti medici che, in barba alle indicazioni contenute nelle linee guida, si sono intestarditi sull’esistenza della malattia di Lyme cronica, un’entità nosologica che non esiste e non trae benefici da ripetuti cicli di trattamento con antibiotici. “L’errore di molti medici è ricontrollare il dato di laboratorio dopo aver somministrato il primo ciclo di terapia”, chiarisce Francavilla. “Questo comportamento è scorretto perché, diversamente da altre patologie, nel caso della malattia di Lyme il valore delle IgM subisce un rialzo tra la terza e la sesta settimana dall’infezione e rimane alto per mesi o per anni: tale persistenza, tuttavia, non è indicativa di una malattia ancora in atto”.

La terapia antibiotica funziona ma l’anomalo comportamento delle IgM, che rimangono elevate per lungo tempo anche se il paziente guarisce, può indurre in errore. “Notando un valore perennemente elevato, molti medici continuano a somministrare cicli di terapia antibiotica con conseguenze inutili o perniciose. È un paradosso. I pazienti sono guariti ma la positività agli anticorpi continua a indurre il sospetto di malattia”, chiarisce Francavilla. C’è anche chi parla di una sindrome post-Lyme con sintomi soggettivi – e dunque non quantificabili – quali affaticabilità e difficoltà a concentrarsi, ma si tratta di una condizione non riconosciuta che rischia di essere confusa con altre patologie, non ultime quelle psichiatriche.

ATTENZIONE ALLE FALSE CREDENZE

“Di certo si sa che la malattia di Lyme risponde benissimo alla terapia antibiotica”, conclude il dott. Francavilla. “Se si effettua il trattamento correttamente, e nei tempi giusti, si guarisce. Quello che conta, in caso di malattia, è rivolgersi a medici informati e preparati”. Un’indicazione che vale non soltanto per il percorso diagnostico e terapeutico ma anche per le pratiche basilari di rimozione di una zeccaRicorrere, come molti sostengono, a batuffoli imbevuti di olio, oppure all’alcol, per annegare l’insetto è in realtà sbagliato, perché si corre il rischio di provocare un rigurgito, aumentando le probabilità di un’infezione. È sufficiente usare una pinzetta ed estrarre la zecca con un movimento di rotazione, afferrandola il più vicino possibile alla testa.

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