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Alzheimer: sempre più giovani a rischio

Studio dell'IRCCS Santa Lucia di Roma: la dopamina è la chiave per diagnosticare l'Alzheimer due anni prima che si manifesti

Polemica presentazione a Pistoia del 9° Congresso sui Centri Diurni Alzheimer. Il geriatra Giulio Masotti accusa: “Un flagello immane nel disinteresse di politica e società civile, manca uno Stato che organizzi una mega campagna di prevenzione”

In aumento i giovani a rischio Alzheimer: l’esordio della patologia avviene oltre i 65 anni ma si manifesta sempre di più in precedenza

La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa che colpisce in modo progressivo le strutture cerebrali. Ma nonostante i soggetti più a rischio siano gli anziani, si assiste a un incremento nell’insorgenza delle forme giovani. Se infatti l’esordio della patologia si conclama prevalentemente in età senile, oltre i 65 anni, è sempre più frequente che si manifesti in precedenza: il 5-10% di tutti i casi riguarda persone al di sotto dei 65 anni; con la possibilità, in casi di malattia genetica dominante, per cui i figli possono ereditare da uno dei genitori la parte di DNA che genera la malattia, di un esordio tra i 35 anni e i 60 anni di età.

“La malattia di Alzheimer a esordio giovanile include principalmente le forme familiari che presentano una notevole compromissione della memoria episodica- spiega alla Dire (www.dire.it) Salvatore Cuzzocrea, professore ordinario di Farmacologia all’Università di Messina- Rispetto ai malati di Alzheimer in età senile, le persone affette da Alzheimer precoce sono meno colpite da malattie cerebrovascolari, renali e cardiache. Anche se il minimo comune denominatore è lo stesso, tra le caratteristiche cliniche proprie dei pazienti con malattia giovanile ritroviamo deficit delle funzioni esecutive e deficit della produzione verbale, che si associano alla perdita della memoria a breve termine. Alcuni pazienti presentano poi un’importante compromissione del processo visivo di individuazione e percezione degli oggetti”.

In questo contesto risulta quindi molto importante una diagnosi precoce, con la possibilità di aprire a trattamenti farmacologici in grado di ritardare l’esordio della malattia. “Numerose evidenze oggi dimostrano un’associazione tra malattie neurodegenerative, in particolare malattia di Alzheimer, e neuroinfiammazione che può avere inizio tempo prima che si abbia una perdita significativa della popolazione neuronale- spiega l’esperto- Il processo neuroinfiammatorio è caratterizzato da interazioni di tipo immunitario che determinano l’attivazione di microglia, astrociti, mastociti residenti nel sistema nervoso centrale, citochine, chemochine e relativi processi molecolari. L’attivazione di questo pool di cellule non-neuronali rappresenta la vera causa del danno degenerativo a carico del neurone”.

Controllare la neuroinfiammazione cerebrale potrebbe dunque preservare la memoria nei soggetti affetti da Alzheimer. “L’insorgenza di fenomeni neuroinfiammatori rappresenta dunque un primo campanello d’allarme e nel contempo una finestra temporale sulla quale iniziare ad agire- prosegue Cuzzocrea- Recenti studi hanno sottolineato come l’ultramicrocomposito PeaLut (palmitoiletanolamide co-ultramicronizzata con Luteolina), sia in grado di modulare l’azione delle cellule non-neuronali e l’effetto dello stress ossidativo migliorando le funzioni cognitive e i disturbi comportamentali dei pazienti. Da ciò consegue che il moderno intervento terapeutico deve focalizzarsi su rimedi in grado di contrastare la neurodegenerazione modulando l’attivazione delle cellule non-neuronali residenti nel sistema nervoso centrale”.

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