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Tela dello Spisanelli danneggiata torna a Bologna

Torna a Bologna la tela di Vincenzo Spisanelli con la “Visita della Madonna a santa Elisabetta” danneggiata durante la Seconda Guerra Mondiale

Torna a Bologna la tela dello Spisanelli con la “Visita della Madonna a santa Elisabetta” danneggiata durante la Seconda Guerra Mondiale

Danneggiata nel corso della Seconda Guerra Mondiale e a lungo dimenticata, rinasce a nuova vita la tela con la “Visita della Madonna a santa Elisabetta” della chiesa di Sant’Andrea di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), opera del pittore secentesco Vincenzo Spisanelli.

Si terrà domani, lunedì 12 agosto alle 17, al circolo “Mitica Tenda” la presentazione del restauro del dipinto, nell’ambito del progetto per il recupero del patrimonio artistico Quadri sacri, varato nell’ultimo biennio dalla fondazione Carisbo in collaborazione con l’ufficio Beni culturali ecclesiastici della Curia arcivescovile di Bologna e con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio.

Alla presenza dell’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, e dei rappresentanti delle istituzioni locali, come riferisce l’Agenzia Dire (www.dire.it) verranno fatte rivivere e mostrate le varie fasi del delicato restauro della tela seicentesca di Spisanelli nel racconto a cura di Angelo Mazza, conservatore delle collezioni d’arte e di storia della Fondazione, e del restauratore Alberto Rodella.

Vincenzo Spisano, meglio conosciuto come lo “Spisanelli” (in alcuni casi è indicato anche come Vincenzo Pisanelli), era originario di Orta (oggi Orta S.Giorgio, provincia di Novara) e l’anno di nascita, il 1595, è desumibile dal fatto che morì a Bologna, all’età di 67 anni, il 28 novembre 1662.

La formazione artistica del giovane Vincenzo si svolse nella “bottega” di Denys (italianizzato in Dionisio) Calvart, un pittore di origini fiamminghe nato ad Anversa nel 1540, circa, noto per la sua arte ma anche per altre qualità molto meno nobili: quali l’avidità, il pessimo carattere e lo sfruttamento sistematico dei giovani pittori ai quali insegnava il mestiere. Dopo aver studiato in Fiandra presso il pittore Van Queckborne (1556), il Calvart venne a Bologna nel 1562 dove fu allievo di Prospero Fontana e Lorenzo Sabatini, accompagnando quest’ultimo a Roma nel 1572 per conoscere i grandi maestri del Rinascimento. Rientrato a Bologna nel 1574, aprì una scuola dove si avvicendarono più di 140 allievi (tra i quali Guido Reni e Francesco Albani) ai quali il maestro affidava l’esecuzione di molte parti delle opere da lui rifinite e firmate. E la straordinaria produzione artistica del Calvart pare fosse dovuta proprio al particolare sfruttamento messo in opera ai danni dei tanti allievi pittori, tra i quali vi fu, appunto, Vincenzo Spisano.

Il periodo di apprendistato dei giovani artisti durava mediamente quattro/cinque anni, ma la docilità di carattere dello Spisano (pare che fosse…uno dè più modesti, costanti ed ubbidienti giovani…) e l’affezione verso il Calvart, ne fecero una vittima particolare del plagio che costituiva parte dell’insegnamento del maestro fiammingo, così che il suo tirocinio si protrasse per ben sette anni.

Stanco delle avidità, delle stravaganze e delle promesse non mantenute del Calvart, Vincenzo Spisano si decise ad abbandonarlo e finalmente aprì una propria “bottega”. Le commesse furono subito numerose e le sue opere incontrarono immediatamente il gradimento dei committenti, ma i tanti (troppi…) anni trascorsi all’ombra del Calvart ne avevano irrimediabilmente influenzato lo stile e la personalità, impedendogli quella evoluzione artistica che ebbero invece il Reni, l’Albani o il Domenichini, pure loro allievi del pittore fiammingo. Quindi, pur possedendo apprezzabili qualità artistiche, lo Spisani non si accorse che gli insegnamenti del Calvart stavano per essere superati dalla pittura dei Carracci e dagli allievi dell’Accademia degli Incamminati, e si isolò in difesa di uno stile pittorico che stava irrimediabilmente perdendo il confronto con le nuove idee artistiche. Carlo C.Malvasia, nel libro “Felsina pittrice” (1841) descrive Vincenzo Spisani come un “buon uomo”, indefesso nel lavoro ma molto chiuso e riservato, e quest’ultimo aspetto del suo carattere non solo gli impedì di avere degli scolari, ma probabilmente giustifica la sua scarsa predisposizione a rivedere ed aggiornare quanto gli aveva insegnato il Calvart.

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